Cavoli, ieri è stata una giornata davvero strana. Mi sono svegliato come sempre alle sei e quaranta, pronto per il giro di consegne pargoli che solitamente mi porta via le prime due ore quotidiane, e eravamo nel 2014, e poi, a metà mattina, mi sono trovato di colpo proiettato una quindicina, se non una ventina di anni indietro.
Sì, di colpo ero negli anni Novanta, e ovviamente, come nei miei veri anni Novanta, non mi trovavo più a Milano, città in cui vivo dal 1997, ma nella mia Ancona, ragazzo ancora dotato di una certa quantità di meraviglia e anche di purezza. Tutto quello che sarebbero stati gli anni a venire, un po’ come per tutti, una grande incognita, ipoteticamente un viaggio interstellare tanto quanto una caduta nel pozzo di Vermicino.
Bye Bye 2014.
Tutto questo perché ieri, in una maniera abbastanza inaspettata, mi è capitato di passare del tempo dentro la musica di due artisti che, coscientemente o meno, mi hanno proiettato nel mio e nel loro passato. Mio e loro passato che per certi versi ha più di un punto di coincidenza.
Il primo ad avermi dato accesso alla Macchina del tempo è stato Lorenzo Jovanotti Cherubini, con la sua Sabato. Ecco, non fosse questo il periodo dell’anno in cui, a causa delle feste di Natale di asili e scuole, delle consegne di consigli orientativi delle medie, e di tutta quella miriade di imprevisti professionali che di solito si concentra proprio quando si avvicinano le vacanze, io il fatto che ieri, martedì, fosse il giorno in cui Jovanotti avrebbe pubblicato il suo nuovo singolo avrei anche dovuto saperlo. Se ne era parlato parecchio, perché Jovanotti è Jovanotti, e un suo nuovo brano fa notizia, e anche perché a dirigere il video di questo nuovo singolo era stato chiamato Salmo, campione underground del rap non esattamente accostabile al nostro, per musica e attitudine.
Così è stato. Ieri è uscito il singolo e il video di Sabato e, non ce n’è, di colpo sono tornato a Ancona, negli anni Novanta. Questa era, immagino, proprio l’intenzione del titolare del brano, nonché del team di registi del video, tra i quali il mefistofelico Salmo. Jovanotti è rinato dopo la caduta dei primi anni Zero grazie a una serie di ballad che ce l’hanno mostrato come un cantautore a tutti gli effetti, da Mi fido di te fino a Le tasche piene di sassi, passando per A te, ma a parere di chi scrive, è nei brani più smaccatamente mossi, quelli che occhieggiano a certa elettronica in profumo di EDM, che ha dato il meglio di sé. Dovessi indicare uno dei suoi migliori singoli degli ultimi anni non avrei dubbi nell’indicare Tensione evolutiva, e per certi versi Sabato è una sorta di via di mezzo tra questa e una delle ballad di cui sopra. Intendiamoci, il brano è dance, ma lo è in maniera sghemba, storta.
Si parte con una musica che, in effetti, ben si addice alla location del video, un Luna Park, anzi, per chi scrive, il Luna Park, quello di Novegro, alle porte di Milano, e su questa si staglia la voce di Jovanotti, carica di una certa rabbia non espressa ma soprattutto di una nostalgia per un passato che, è scritto, non può e non deve tornare. Il brano, con un ritornello che ti si inchioda al cervello come solo le hit sanno fare, non esplode mai. Jovanotti riesce, con un crescendo di musica e parole, a portare l’ascoltatore verso un viaggio nel passato (la musica guarda all’oggi e al passato, ascoltare per credere), nella provincia, nella fame di vita che è tipica della giovinezza, senza mai aprire realmente la canzone, come in certi racconti di Carver. Quel che deve succedere è lasciato intuire, non succede mai sotto i nostri orecchi, del resto, il rimando musicale all’ultima decade dello scorso millennio, ci fa capire bene che quel che doveva succedere è già successo (le citazioni di Bad di Michael Jackson, di Heroes di Bowie e di King Kong non fanno che confermare una certa nostalgia).
Sabato è un gran bel brano, e Sabato è un video molto bello, che ci mostra Salmo, e i suoi due pard, Niccolò Celaia e Antonio Usbergo, sotto una nuova luce. Per chi scrive, poi, il Luna Park di Novegro, è una sorta di feticcio inquietante, visto che è lì davanti che passa la mia strada da circa diciassette anni, giorno dopo giorno, per motivi diversi. L’ascolto di questo brano mi ha cancellato di colpo vent’anni dalla carta di identità, a buon rendere.
Lo stesso effetto ha avuto su di me un altro album uscito ieri, Black Messiah di D’Angelo, atteso appena quattordici anni. Altro album di cui si vociferava da una vita, praticamente all’uscita del suo predecessore, Voodoo, nel 2000 (prima era stata la volta del seminale Brown Sugar, del 1995), e che quindi non avrebbe affatto dovuto sorprendermi. Ma ho già detto, la vita è difficile un po’ per tutti, anche per chi come me si occupa di facezie.
Che dire? Black Messiah è un viaggio nel tempo ancora più di Sabato, perché D’Angelo ha impiegato quattordici anni, tra ritiri, arresti, disintossicazioni in clinica, tante jam con fior di professionisti, brani incisi e mai usciti, e alla fine ha tirato fuori una sorta di bigino della black music di fine secolo. Musica senza tempo, viene da dire, che ti riconcilia col mondo, proprio per questa sua capacità di farti spaziare nel tempo, e di portarti lontano da qui. Con Prince ben presente in ogni singola nota, e con una capacità di giocare con ritmo e soul che davvero ci fa rimpiangere tutto quel che ci siamo persi in tutti questi anni di silenzio, D’Angelo torna, cosciente, si direbbe, di essere e rimanere un outsider, uno che incarna alla perfezione la blackness in musica, anche quando i campioni della medesima sembrano essersi spostati proprio in quel territorio EDM così ben interpretato da Jovanotti. Ascoltandolo viene da augurarsi che torni presto in sala d’incisione, o magari no, che scompaia di nuovo, per regalarci tra altri quattordici anni musica senza tempo.
Insomma, due uscite belle, a fine anno, a classifiche del Meglio del 2014 già chiuse. Del resto, è scritto, questi non sono brani di oggi, ma di ieri, di quei sabati in cui si aveva fame del domani, anche se poi il domani non sarebbe stato quello che avevamo pensato per noi, nel bene e nel male.