L’ultima opera cinematografica di Fabrizio Bellomo è una riflessione teorica sottotraccia sul documentario cinematografico e su i suoi confini con la finzione. “Chiedo allo spettatore di avere fiducia, lasciare spazio alla propria curiosità per entrare nel film e goderselo. Di certo non cerco l’intrattenimento”, ha detto il regista al fatto.it
Sono affari di famiglia… e di immagini in movimento. “L’albero di trasmissione”, l’ultima opera cinematografica di Fabrizio Bellomo, presentata nei giorni scorsi con successo al Festival dei Popoli di Firenze e al Filmmaker di Milano, è una linea invisibile che attraversa tre generazioni di una famiglia barese, i Ciliberti, uniti dal riutilizzo di oggetti e marchingegni tecnici altrimenti destinati a qualche discarica, nonché elementi materiali di una metafora del trapasso generazionale: il nonno Rocco, classico inventore che pensa soprattutto alla funzionalità della cosa aggiustata o risistemata; il figlio Simone rivolto più tra carcasse di auto e moto, sedie, cavalli a dondolo, reti metalliche al lato estetico della nuova vita dell’oggetto; il nipotino Nicola homo technologicus con smartphone.
Ma “L’albero di trasmissione” è anche, e soprattutto, una riflessione teorica sottotraccia della trasformazione, e relativo altrettanto trapasso, del documentario cinematografico e dei suoi confini con la finzione. “Dopo i miei primi tre video-ritratti (32 Dicembre, Litoranea San Giorgio Torre a mare e La guerra delle Sgagliozze ndr) ho iniziato ad interessarmi ad un certo tipo di cinema come il primo Garrone, Pietro Marcello, Gianfranco Rosi, La Pivellina di Tizza Covi e Rainer Frimmel dove si prova una sensazione in cui ci si interroga molto sul concetto di finzione e di realtà”, spiega Bellomo al fattoquotidiano.it. L’artista di origine barese nei suoi brevi lavori tra il 2010 e il 2011 aveva ritratto con la sua Canon 550 alcuni cittadini baresi, tra cui degli ambulanti di fuochi d’artificio, convinti di essere fotografati quando invece li stava filmando: “Oggi con gli apparecchi digitali macchina fotografica e macchina da presa possono essere una cosa sola – spiega – è un metodo che mi ha aiutato ad ingannare la persona ritratta, ma ha fatto fingere anche me dietro l’obiettivo mentre facevo finta di mettere a fuoco o chiudere il diaframma”.
Ed è proprio da come si comportano le persone di fronte a una cinepresa o a un obiettivo fotografico, da come reagiscono quando si sentono parte di un meccanismo di rappresentazione che Bellomo prima ci riflette con un libro, poi inizia il suo percorso di filmmaker che s’impatta sui Ciliberti: “Giravo in Vespa a Bari e ho visto il deposito di Simone. Mi sono incuriosito, li ho frequentati e ne è uscito un film di 47 minuti dove il “grande disegno” dei rapporti familiari, gli ingranaggi e i meccanismi che li sorreggono hanno una meccanica sballata, non perfetta. La fisica e la tecnica hanno una logica, danno certezze. In realtà non è così, la pancia, ciò che c’è di interiore alle persone, interviene sempre”.
Ragionamento traslato nella teoria della ripresa del vero e di ciò che si può falsificare: “Prendiamo i film di Garrone e Marcello: in realtà sono fiabe e documentari insieme, una tensione da ossimoro. Ad un certo punto però sei talmente rapito dal flusso delle immagini che non ti frega più nulla se è vero o falso ciò che vedi. La voglia di capire i meccanismi che non possiamo comprendere porta a confonderci. Alla fine non ce la fai. Li vuoi gestire e manovrare ma è pura utopia. E soprattutto porta alla frustrazione”. Impossibile non rimanere ammaliati da L’albero di trasmissione; difficile non riconoscere a questo punto tutto un filone teorico degli autori citati da Bellomo senza una nuova sistematizzazione in un nuovo genere delle immagini in movimento: “Chiedo allo spettatore di avere fiducia, lasciare spazio alla propria curiosità per entrare nel film e goderselo. Di certo non cerco l’intrattenimento”. Il film ha ricevuto un contributo economico dall’Apulia Film Commission nell’interregno vendoliano (“Sono apolitico, ma Vendola ha fatto un gran lavoro anche con coraggio nell’ambito del cinema e ora ho il dispiacere di un’opportunità che ci è passata davanti senza usarla appieno”), anche se ora si passa al prossimo progetto, né un documentario né un film ma “qualcosa” su Anna Oxa: “Si dice che sia pronipote di Enver Hoxha, ma ciò che c’è di vero e di falso nella vicenda è tutto da capire”.