Niente da fare. La Realpolitik ha ancora una volta trionfato. E ci mancherebbe altro, visto che sono stati proprio i gesuiti, secoli fa, ad inventarla.
Papa Francesco sarà anche simpatico, “aperto” e cinguettante (nel senso che ama “twittare”), ma il suo rifiuto di incontrare il Dalai Lama è per la sua immagine un autogol pari a quello provocato da Bush dopo l’attentato alle Torri Gemelle. Quando nel giro di poche settimane, con i bombardamenti a tappeto sull’Afghanistan, si giocò tutta la simpatia e la solidarietà che era giustamente sorta nei confronti degli Usa.
Molti si sono subito affrettati a giustificare il pontefice: una decisione imposta dalle circostanze, dal suo entourage. Personalmente, l’avrebbe sicuramente voluto incontrare.
Se anche fosse, non basta a giustificare una decisione sbagliata. Anzi, l’aggrava. Questo Papa ha puntato sul decisionismo, sulla trasparenza e perfino sull’ (apparente?) improvvisazione la sua immagine: possibile che dopo aver proposto storiche e coraggiose aperture in altri settori abbia improvvisamente ceduto all’esigenza della realpolitik e agli interessi (non solo spirituali) della Chiesa in Cina? Se così fosse – e così pare proprio che sia – questa decisione è ancora più grave e dannosa: perché finirà per (ri) allontanare dalla Chiesa molte persone che, negli ultimi tempi, si erano (ri)avvicinate.
Certo, incontrare il Dalai Lama è politicamente scorretto. Ed economicamente disastroso. Ne sanno qualcosa i pochi leader europei che in passato hanno avuto il coraggio di incontrarlo, più o meno ufficialmente, e che sono stati puniti, più o meno direttamente, da Pechino. Il premier inglese Cameron, per averlo ricevuto in forma privata, ha dovuto rimandare di un anno una visita ufficiale in Cina, già concordata nei minimi dettagli.
Nonostante non sia più – formalmente – un leader politico, nonostante abbia detto e ripetuto più volte che non auspica più l’indipendenza del Tibet bensì il riconoscimento di una autonomia peraltro già garantita (ma non applicata) dalla vigente costituzione cinese, le autorità cinesi continuano a considerare il Dalai Lama un “separatista”, un provocatore, un potenziale terrorista. Senza rendersi conto che proprio questo loro atteggiamento nei confronti di una persona saggia e rispettata in tutto il mondo è una delle più potenti armi che l’Occidente – pur con le sue colpe e le sue ipocrisie – ha ancora nei confronti della Cina “comunista”. Dubito che consentire al Dalai Lama il rientro – magari anche solo temporaneo – a Pechino o anche in Tibet provocherebbe un’insurrezione o la caduta del “regime”. Anzi. Porterebbe la pace in una terra ancora segnata da orribili violenze. Sono davvero stupito dal fatto che leader intelligenti e preparati come quelli cinesi – in particolare il presidente Xi Jinping (la cui moglie pare sia una fervente buddista) – non se ne rendano conto. Anche se spero che qualcosa bolla in pentola.
Quel che di sicuro bolle, nella pentola vaticana, è la speranza di sbloccare la “questione” cinese. Una questione che non riguarda solo la libertà religiosa ed il ruolo di preti e vescovi “clandestini”, ma anche la proprietà di migliaia di immobili a suo tempo confiscati dal governo. E’ a tutti noto che la scorsa estate, in occasione del suo viaggio a Seoul, in Corea, Pechino abbia per la prima volta consentito all’aereo papale di sorvolare il suolo cinese, e che il Papa abbia risposto inviando un “affettuoso” messaggio al popolo cinese ed ai suoi leader. Da allora è tutto un susseguirsi di trattative, che potrebbero culminare nell’oramai molto probabile viaggio di Papa Francesco ad Hong Kong, l’anno prossimo. Il che conferma che Cina e Vaticano parlano, tutto sommato, la stessa lingua: quella della realpolitik. Non si vede altra ragione, infatti, per la quale Pechino dovrebbe privilegiare i rapporti con un leader religioso che è anche capo di uno stato (ancorché non riconosciuto) rifiutando ogni apertura nei confronti di un leader che oramai è esclusivamente religioso.
Conosco il Dalai Lama ormai da molti anni e oltre ad averlo intervistarlo spesso ho anche avuto il privilegio di raccogliere alcune confidenze private. Anche in occasione di questa sua recente visita in Italia ho potuto cogliere la sua profonda saggezza, tolleranza, compassione nell’esprimere sincera amarezza più che fastidio e delusione. Ci teneva davvero, dopo aver incontrato più volte papa Wojtyla e una volta papa Ratzinger, a incontrare papa Francesco. Ma ha ripetutamente manifestato comprensione per questa “sofferta” decisione.
Insomma, una occasione perduta. Per il Papa, che cedendo alla pressioni di Pechino non ne ha certamente ricavato maggior rispetto (i cinesi, da sempre, mostrano di rispettare chi ha il coraggio di opporsi, non chi si adegua) e per la diplomazia vaticana, che non è riuscita a sfruttare nemmeno l’occasione del Summit dei Nobel per la Pace, svoltosi a Roma nei giorni scorsi, per trovare un compromesso.
Già, perché per diluire, quanto meno, l’impatto di un incontro con il Dalai Lama, potevano inventarsi almeno un’udienza collettiva per tutti i Nobel della Pace presenti a Roma. E invece, per evitare di incontrare il “monaco guastafeste” – come ama autodefinirsi lo stesso Dalai Lama – il Papa ha finito per ignorare anche tutti gli altri Nobel. Gente che il mondo l’ha cambiato. E nella direzione che, a parole, indica anche Francesco. Magari tra un Maradona, un Buffon e un Balotelli un incontro con loro ci poteva stare. Ma forse Eros – inteso come il desiderio poco cristiano di “possesso” ha sfrattato definitivamente Agape – l’amore puro, assoluto e gratuito – anche dal Vaticano, come ammoniva nella sua poco diffusa enciclica Deus Caritas Est, Benedetto XVI. Che l’Agape Celeste per definizione, il Dalai Lama, sia pure per pochi minuti, a suo tempo lo ricevette.