Barack Obama non era ancora nato quando, nel 1960, gli Stati Uniti imposero il primo embargo a Cuba. Fidel Castro aveva preso il potere nell’isola un anno prima. Da allora, per più di cinquant’anni, lo scontro con l’Avana è diventato uno dei pilastri della politica estera americana e il simbolo, prima vigoroso, poi sempre più esangue, della Guerrra Fredda. Che si trattasse di embargo o dell’inserimento di Cuba, a partire dal 1982, tra gli Stati sponsor del terrorismo, il dogma della presa di posizione anti-cubana e anti-castristra è stato raramente messo in discussione nella politica americana.
Questo schema viene meno con il discorso, che probabilmente passerà alla storia, con cui il presidente americano il 17 dicembre 2014 chiude lo scontro decennale con il vicino. “Mettiamo fine a un approccio datato che ha fallito e cominciamo a normalizzare la relazione tra i nostri due Paesi”, ha spiegato Obama, aggiungendo che “l’isolamento di Cuba” non ha funzionato e che è necessario “un nuovo capitolo nei rapporti tra le nazioni delle Americhe”. Fondato su uno scambio di prigionieri, in primo luogo il contractor Alan Gross, l’accordo prevede la ripresa di normali relazioni diplomatiche e l’apertura di un’ambasciata americana all’Avana; l’aumento delle rimesse dei cubano-americani verso il paese d’origine e maggiore possibilità di entrata negli Stati Uniti per i cubani che ci arrivano per ragioni professionali, giornalistiche, familiari e religiose.
La svolta di Obama ha, da un lato, un elemento sicuramente generazionale. “La politica rigida verso Cuba si radica in fatti successi prima della nascita di molti di noi”, ha detto il presidente. Molti degli stessi giovani americani di origine cubana, concentrati soprattutto in Florida, hanno perso il feroce anticomunismo dei loro padri e nonni. Eventi come la Baia dei Porci e la crisi missilistica del 1962 si perdono in un passato di scontro ideologico e di potere che ha perso gran parte del proprio significato. Cuba non è più un simbolo di resistenza all’imperialismo americano; gli interessi geopolitici degli Stati Uniti sono rivolti altrove.
Di più, come Obama ha messo in luce durante il suo discorso alla nazione, l’isolamento di Cuba non è servito. Non è servito a defenestrare Fidel Castro né il fratello Raul, al potere dal 2006. E’ costato profumatamente alle casse americane – 264 milioni di dollari soltanto in tentativi propagandistici di ribaltare il governo cubano – e ha anzi rafforzato la presa repressiva sulla società civile da parte del castrismo, che si è potuto presentare ai propri concittadini e al mondo come vittima del totalitarismo americano. Gli stessi alleati europei degli Stati Uniti, ormai apertamente, mettevano in discussione l’embargo. Tutto lo schema dell’isolamento dei Cuba, insomma, è diventato un guscio vuoto, privo della sostanza ideologica e politica che l’ha nutrito.
Mentre, con il passare degli anni, si affievolivano sino a scomparire le ragioni del cordone sanitario intorno a Cuba, si moltiplicavano invece i motivi che facevano propendere la Casa Bianca per il cambiamento. Anzitutto, Cuba non rappresenta alcun tipo di minaccia alla sicurezza americana. La forza del messaggio castrista nel mondo si è appannata, travolta dall’autoritarismo che ha segnato gli ultimi decenni della guida del leader; al tempo stesso, il governo cubano ha mostrato buone capacità di equilibrio e mediazione internazionale, per esempio nelle trattative tra il governo colombiano e le Farc. Soltanto un gruppo di conservatori di ferro a Washington – che anche adesso, dopo l’accordo, protestano e prevedono tempi bui – poteva restare legato a un’immagine di Cuba legata indissolubilmente alla Guerra Fredda.
Oltre all’elemento più squisitamente storico e ideologico, c’è poi quello economico. Le recenti, sia pur limitate, riforme economiche a Cuba – soprattutto nel settore degli investimenti stranieri – non potevano lasciare insensibili molti a Washington. Mentre si affievoliscono gli storici rapporti commerciali ed economici col Venezuela in crisi, Cuba diventa sempre di più un mercato allettante e una meta possibile di investimenti, anche americani. Molte delle rimesse che dalla Florida prendono la strada di Cuba, e che non a caso verranno nei prossimi mesi maggiorate (con la possibilità di trasferire sino a duemila dollari contro gli attuali cinquecento nell’arco di tre mesi) portano diritto a un maggiore controllo di uomini e compagnie americane sull’economia dell’isola.
Restano gli aspetti politici, che sicuramente hanno contato nella decisione di Obama. Anzitutto, il presidente sa molto bene che, con un Congresso controllato completamente dai repubblicani, non ci sono riforme possibili in vista. E quindi sceglie la strada degli ordini esecutivi, come nel caso dell’immigrazione e ora di Cuba; agisce da solo, nei limiti che sono stati concessi dalla Costituzione, cercando di consegnare alla Storia un’immagine di sé più vicina alle attese riformatrici dei suoi esordi. Normalizzare i rapporti con Cuba, sollevare l’embargo, significa però anche un’altra cosa: conquistare per i democratici il voto dei giovani cubani – più pragmatici e meno ideologizzati – in vista del 2016 e soprattutto in Florida, da sempre uno degli Stati ago della bilancia nelle presidenziali.