Un amico scrive su Facebook il suo disappunto: “Era così piacevole camminare per le strade di Cuba consapevole che non avresti mai incontrato dei prepotenti e sgradevoli cittadini americani…”. Ti capisco, Graziano. Se il paragone è Miami, una certa parte traumatizzata e mai guarita della comunità cubana, quelli che Castro chiamava “los gusanos”, i vermi, posso capire.
Capisco anche la paura di veder scomparire un patrimonio architettonico e artistico (e automobilistico) in costante decadenza, anche a causa dell’embargo. Capisco e sento il fascino che irretisce noi europei, che amiamo sguazzare nella marcescenza della storia, la Cuba dei Buena Vista Social Club, l’Havana delle lise icone del Che e di Hemingway con la sua Bodeguita e tutta l’iconografia cara all’occhio umido della nostalgia di un passato a volte nemmeno vissuto, solo ammirato.
Ricordo il funerale di Che Guevara, a Santa Clara. Ne ho scritto una versione romanzata nel mio “Nimodo” che è uscito in questi giorni, quindi mi è spontaneo sentir battere il cuore per questa notizia a doppio taglio: si aprono lentamente le porte tra Cuba e Stati Uniti. Amici che investono lì, emotivamente ed economicamente, stanno esplodendo di gioia. Sono con loro.
Sarà più facile viaggiare, non bisognerà più fare scalo in Messico o in qualche altra tappa, per chi viene dagli Usa. È un’arma a doppio taglio perché grazie a questo muro Cuba ha conservato anche una distinzione non da poco, e un livello di preparazione culturale, a caro prezzo, lo so, che non ha paragoni dall’altra parte del Golfo del Messico. Ma si può anche pensare che questo è il piano di un Fidel 88enne che sa che dovrà morie, e di suo fratello Raul incaricato di una transizione morbida verso l’inevitabile riavvicinamento, senza per questo preconizzare il ritorno agli sfaceli di Batista.