Sfuma, o perlomeno slitta molto avanti nel tempo, il salvataggio dell’Ilva da parte di una cordata di aziende private. Come anticipato dal premier Matteo Renzi a fine novembre, al loro posto è pronto a intervenire il governo, con un prestito ponte da almeno 1 miliardo di euro concesso da Cassa depositi e prestiti (attraverso il Fondo strategico italiano o Fintecna) e garantito dallo Stato. Secondo quanto riporta il Messaggero, da parte del tandem formato dagli indiani di ArcelorMittal e dal gruppo Marcegaglia non è mai arrivata “un’offerta impegnativa“. E ora “i privati sono spariti dall’orizzonte”. A questo punto non vi rientreranno prima di quello che mercoledì il ministro dello Sviluppo Federica Guidi ha descritto come “un periodo sufficientemente lungo a rimettere l’azienda sul mercato”. Solo dopo, “in futuro”, sarà “valutabile l’ipotesi di un investitore industriale” disposto ad acquisire la maggioranza del gruppo. Anche perché, come ha detto chiaro e tondo il commissario Piero Gnudi in audizione alla Camera, “nessuno comprerà mai un’azienda sotto sequestro”.
Insomma: dopo 18 mesi di gestione commissariale, con la spada di Damocle della sospensione della fornitura di metano da parte di Eni e soldi in cassa sufficienti per soli due mesi, solo lo Stato è disposto a mettere soldi freschi sul piatto del siderurgico che impiega oltre 11mila dipendenti e ha tre quarti degli impianti sequestrati in attesa dell’attuazione delle misure di risanamento previste dall’Autorizzazione integrata ambientale (Aia).
In questo quadro è atteso per mercoledì 24 il decreto con cui l’esecutivo delineerà nei dettagli il suo piano e, per attuarlo, nominerà un nuovo commissario straordinario con pieni poteri, tra cui, se necessario, quello di creare una bad company a cui affidare il peso di eventuali risarcimenti e contenziosi per l’inquinamento prodotto negli ultimi decenni. Il tutto sulla base di una nuova versione della legge Marzano sulla ristrutturazione delle grandi imprese: andrà modificata per raccordarla con l’ultimo decreto Salva Ilva della scorsa estate e per tener conto della particolare situazione del siderurgico, che formalmente non è in stato di insolvenza.
Il commissario governativo dovrà fare i conti con diversi ordini di problemi: la pesantissima zavorra dei debiti con le banche, i fornitori e l’Inps, la minaccia rappresentata dagli eventuali risarcimenti alle costituende parti civili nel processo per disastro ambientale, i costi da sostenere per il risanamento e, non ultimo, il rapporto con gli attuali azionisti, la famiglia Riva (90%) e il gruppo Amenduni (10 per cento). L’esposizione bancaria ammonta a quasi 1,5 miliardi di euro. A questi bisogna aggiungere oltre 350 milioni di crediti vantati dai fornitori, tra cui il Cane a Sei zampe, che a fine mese chiuderà i rubinetti del gas a meno di non vedersi fornire una solida garanzia sotto forma di una fidejussione di 240 milioni. Se il gruppo – presieduto dalla stessa Emma Marcegaglia che tramite l’azienda di famiglia ha presentato in novembre una manifestazione di interesse per l’Ilva – mettesse in pratica la minaccia, lo stabilimento dovrà chiudere l’area a caldo, spegnendo gli altiforni. Infine, “balla” la cifra ancora oggi sconosciuta che il siderurgico deve all’istituto nazionale di previdenza sociale per contributi dei dipendenti non versati. E’ evidente che l’acquisto di una società gravata da questa massa passiva non è allettante per nessun acquirente.
A tutto questo vanno poi sommati i risarcimenti che deriverebbero da un’eventuale sentenza di condanna nel maxi processo che si sta celebrando a Taranto. Il 16 dicembre il gup Vilma Gilli, aggiornando l’udienza al 22 gennaio, ha accolto molte delle richieste di costituzione di parte civile presentate da 1.100 tra associazioni ed enti pubblici, per un ammontare complessivo di danni superiore ai 30 miliardi di euro. Sullo sfondo rimane il nodo dei sei reparti formalmente sotto sequestro e la situazione dell’area non sequestrata, quella a freddo, che presenta ancora pesanti problemi di sicurezza come dimostra l’ennesimo incidente avvenuto l’11 dicembre: durante alcuni lavori di manutenzione una gru è collassata e due operai sono rimasti feriti.
Ma il primo scoglio sulla strada del commissario sarà l’adeguamento dello stabilimento alle prescrizioni dell’Aia, la cui attuazione costerà 1,8 miliardi, da coprire in parte con i fondi sequestrati dalla procura di Milano ai Riva in una indagine per frode fiscale che ancora non è stata ufficialmente chiusa. Il governo, che nell’ambito del piano di investimenti europeo di Jean Claude Juncker ha presentato anche due progetti per il risanamento dell’Ilva, intende per prima cosa modificare al ribasso i paletti sulle emissioni, che l’Aia fissa a livelli più restrittivi di quelli vigenti a livello Ue. La somma per ammodernare l’area a freddo, però, non è mai stata stimata. Quanto alle bonifiche, sui 336 milioni di fondi pubblici stanziati a luglio 2012 al momento ne sono stati spesi solo 50 per progettazioni e caratterizzazioni dei suoli da bonificare: il quartiere Tamburi, insomma, è ancora al punto di partenza. Nel frattempo dal sottosuolo della fabbrica continuano a emergere sorprese. Come il catrame e il materiale oleoso scoperto dai carabinieri del Noe di Lecce pochi giorni fa a qualche metro di distanza dall’acciaieria.
ha collaborato Francesco Casula