Il tono della voce è sommesso, lo sguardo spaesato e sofferente partorito da occhi neri ed intensi, le parole mi arrivano cariche dell’indicibile. Già perché, per certi stati d’animo, un linguaggio adeguato non è ancora stato trovato e noi terapeuti, in quei casi, non possiamo che chiedere aiuto al silenzio, accettare che il cambiamento passi attraverso il tempo che deve scorrere nell’impossibilità di correre. Se le parole curano, il silenzio protegge.
Davanti ho un cliente, il suo evidente carico emotivo mi tocca, mi commuove nel senso che mi “muove con” lui, mi muovo al suo fianco. Assisto consapevole, dentro di me, alla nascita di ciò che mi permetterà di sostenere la persona che ho davanti: l’empatia, la capacità di comprendere lo stato d’animo dell’altro senza esserne invaso, partecipandovi e riuscendo a trasmetterglielo.
Davanti ho una persona come me, fatta della stessa carne e degli stessi sentimenti, capisco di essere umano e fragile come lui e di aver provato anche io, in altre occasioni, ciò che mi sta portando in quel momento: l’angoscia.
Heidegger in “ Essere e Tempo” scrive: “…l’angoscia racchiude la possibilità di un’apertura privilegiata per il fatto che isola. Questo isolamento va a riprendere l’Esserci dalla sua deiezione e gli rivela l’autenticità e l’inautenticità come possibilità del suo essere. Nell’angoscia le possibilità fondamentali dell’Esserci, che è sempre mio, si mostrano in se stesse, senza l’intrusione dell’ente intramondano a cui l’Esserci innanzitutto e per lo più si aggrappa.”
L’isolamento ci fa rapidamente ed inesorabilmente fare i conti con noi stessi ed è una delle conseguenze dell’angoscia. Quando si sta male si diventa isole in fuga dal continente che provano a stare a galla nell’oceano da sole, la paura di non farcela, ma anche l’impotenza, non avere altre alternative che provarci comunque. Diveniamo quel che siamo realmente, autenticamente noi. Vulnerabili e fragili ci spogliamo dell’armatura, non c’è corazza che ci possa proteggere. Quel che si riteneva essenziale appare superfluo, rendersene conto è traumatico. Per ricostruire bisogna distruggere, fare tabula rasa, non si può costruire un edificio nuovo sulle basi di quello vecchio, altrimenti verrà fuori lo stesso lavoro, più instabile del precedente.
Mi viene da pensare: “la miglior terapia sono i miei clienti”, poi però mi accorgo che c’è qualcosa di vero, ma che c’è anche qualcosa che stona e correggo il tiro. La mia terapia non possono essere i miei clienti perché a spingermi verso di loro non è un mio disagio, non possono sostituirsi a me in quel di cui loro necessitano. Il bisogno che mi spinge verso di loro riguarda la dimensione della cura,dell’apprendimento e della crescita personale e professionale.
Riconoscermi nelle emozioni dei miei clienti non è terapia, ma acquista una valenza comunque terapeutica. Il prendermi cura dell’altro mi fa contattare come, prima che questo avvenisse, ho dovuto necessariamente prendermi cura di me stesso. Il ricordo dei miei disagi mi facilita la comprensione di quelli dell’altro, separando quel che c’è di mio da quel che c’è di loro.
L’angoscia richiama l’esistenziale, a mio avviso, più di ogni altro stato d’animo, è la tempesta prima della quiete, il nostro colloquio più difficile, lo specchio nel quale non vorremmo mai specchiarci, pur ritrovandoci in una casa gravida di superfici riflettenti. Bisogna alzare lo sguardo e guardarsi, trovare il coraggio di riflettere e riflettersi.
Davanti a me ho il mio cliente, davanti a me ho la sua angoscia, dentro di me ho la mia angoscia, ne chiarisco e ne delimito i confini, è il mio mestiere saperlo fare, ha inizio la terapia. Se il mio cliente cambia, cambio io con lui, mi commuovo/ “muovo con” lui.
Sempre Martin Heidegger in ‘Essere e Tempo’: “L’Esserci quotidiano si comprende innanzi tutto e per lo più, a partire da ciò di cui ci si prende cura. Si è ciò di cui ci si occupa”.