“Muchos años después, frente al pelotòn de fusilamiento, el coronel Aureliano Buendìa habìa de recordar aquella tarde remota en que su padre lo llevò a conocer al hielo”. Alzando gli occhi da questo incipit in tutti i sensi fantastico, mi si parava dinnanzi la porta di ferro massiccio che si era appena chiusa con lo stridore dei tre chiavistelli intravisti entrando. Seduto sul bordo di un asse di legno, coperto da una specie di panno nero e ricciuto sopravvissuto a molteplici esperienze, con le scarpe sull’orlo di un gabinetto alla turca, riflettevo sulla stranezza delle circostanze che mi avevano condotto in quella situazione.
Ne sarei uscito, con molta probabilità, non più in là di 48 ore (così mi era stato comunicato), ma intanto mi colpiva proprio la coincidenza con il fatto che mi ero portato in viaggio questo libro, mai letto in lingua originale (che, peraltro, non conosco). E adesso mi trovavo di fronte a una sospensione del mio tempo del tutto imprevista, e imprevedibile. Mi sembrava di avere avuto una premonizione, al momento della mia partenza da Roma, e di stare sperimentando il suo inveramento.
Le pareti della cella erano abbastanza bianche, anche se striate di scritte scavate da qualche punteruolo. Chissà quale, mi chiedevo, visto che a me avevano appena negato il piccolo privilegio di portare in cella una penna biro. Scherzando appena un poco avevo detto ai solerti carcerieri che, in fondo, ero anche uno scrittore; che non avevo sonno e avrei cercato di occupare il tempo scrivendo le mie memorie di recluso, da temporaneo Silvio Pellico qual’ero improvvisamente diventato.
Forse qualcuno si era suicidato, o magari soltanto ferito, ingoiando della plastica? Trovavo comprensibile che mi avessero tolto la cravatta, e che mi avessero costretto a entrare in cella sostenendo i pantaloni con le mani. Ma ora mi trovavo soltanto con un libro in spagnolo, nello spazio di sei metri quadri all’incirca, vagamente inquieto dalla prospettiva di dovermi sdraiare, prima o dopo, su quel vello nero, quando avessero spento la luce. Ma non era previsto neanche questo. Un neon smorto ronzava sulla mia testa e avrebbe ronzato tutta la notte, accompagnando con la sua presenza un vago odore di latrina.
Tutto compreso non troppo male poi. Pensavo al clamore che il mio arresto avrebbe provocato nella sala dell’albergo dove a quell’ora dovevano già essere riunite le 280 persone che – mi era stato detto dagli organizzatori venendo all’aeroporto a prelevarmi, quella mattina – avevano prenotato un posto a sedere.
Fuori dalla mia cella, da qualche parte nell’edificio, c’era l’ambasciatore italiano a Tallinn, che stava cercando di sottrarmi alla custodia. Se potei alla fine dormire nella camera d’albergo da cui ero stato prelevato cinque ore prima, lo devo a lui. Ma intanto non potevo evitare di interpretare quello che stava accadendo come un evento notevole, una svolta. In fondo, sebbene io sia sempre stato consapevole che le mie posizioni davano fastidio a molti, e non poco; e che sarebbe venuto il momento in cui qualcuno avrebbe cercato, e trovato, il modo di farmela pagare, di farmi assaggiare la violenza fisica, materiale, tuttavia – non conoscendo il reale livello di ostilità che producevo – non riuscivo a immaginare né da dove sarebbe giunto il colpo, né la sua intensità.
Fissando il buco nero del gabinetto di alluminio, a fianco della porta d’acciaio e sotto lo sguardo cieco dello spioncino – l’unico accenno simbolico alla profondità del mistero – mi tornavano in mente, per analogia, certe virulente invettive di alcuni dei più affezionati frequentatori di questo blog; le loro anonime delazioni; le richieste ripetute di togliermi la parola; l’odio che ne traspirava, nemmeno attenuato dalla mediazione elettronica. Ecco: a Tallin si era materializzato qualcuno che aveva eseguito l’intimazione. E aveva potuto farlo, impunemente. La conferenza era stata annullata, e io ero in prigione. Una specie di scalino era stato disceso. Per la precisione: ero stato costretto con la forza a discenderlo. Quante volte avevo discusso di diritti umani e ora, per la prima volta fisicamente, mi trovavo nella posizione di chi ne viene privato.
Non vedevo più in là, più in basso, ma avvertivo – francamente lo avverto anche adesso, mentre scrivo queste righe – che c’erano altri scalini da scendere. E che non sarebbe stato difficile, per coloro che mi avevano costretto a scendere il primo, obbligarmi a scendere anche il secondo. Qualcuno, magari molto lontano, anche lontano da Tallin, aveva avuto questo potere. Sapevo che ci sarebbe stata una reazione, fuori da quelle quattro pareti. Ma intanto io ero solo. Pensai che ero fortunato perché qualcuno mi avrebbe tirato fuori da quella vertigine di solitudine. Ma mi venne un brivido quando, a fatica, cercai di immedesimarmi nei panni di qualcuno, anonimo, sconosciuto, che non avesse avuto alcuna speranza. E non per qualche ora, ma per un periodo di tempo indeterminato.
Kiev, Tallinn, Riga, Vilnius, Varsavia, Berlino, Bruxelles sono questi scalini? Chi è che accende la luce per guardare quanto è lunga la scala, in fondo alla quale c’è il “peloton del fusilamiento”- metaforico o reale, vai a sapere – per tutti gli Aureliano Buendìa, colonnelli o soldati semplici, che osano dare fastidio?