Il 19 dicembre il governo di Matteo Renzi compie 300 giorni di vita, eguagliando la durata del precedente esecutivo guidato da Enrico Letta. A febbraio il neoeletto segretario del Partito Democratico giustificò il cambio della guardia a Palazzo Chigi con la necessità di dare uno sprint alle riforme e far ripartire l’Italia. Come sta il Paese a trecento giorni da quel 22 febbraio, giorno del giuramento della squadra di ministri guidata dall’ex sindaco di Firenze? IlFattoQuotidiano.it ha messo a confronto i risultati ottenuti dai due governi, prendendo a riferimento da un lato gli indicatori economici dei rispettivi periodi, per capire se lo stato di salute del Paese è migliorata o meno, e dall’altro analizzando la produttività di Consiglio di ministri e Parlamento sotto i due premier per fare un punto sull’avanzamento delle riforme. Ecco cosa è emerso.
Rapporto Debito/Pil peggiorato con Renzi
E’ chiaro che, bene o male che vada, l’andamento del quadro economico non potrà essere addebitato per intero all’attuale capo del governo. Ma se i principali indicatori-chiave sono peggiorati, non si potrà essere smentiti nell’indicare al paziente che le promesse di pronta guarigione del medico erano quantomeno ottimistiche. Partiamo dal parametro Debito-Pil, indicatore rilevante non solo della salute dei conti ma della distanza dall’Europa rispetto agli impegni presi, dai parametri di Maastricht al Fiscal Compact. La media dei Paesi dell’Unione è oggi intorno al 93,8%. Quello dell’Italia ha sfondato quota 132,8%. E a quanto era con Letta? Al 127,9%, media 2013 secondo Istat ed Eurostat, mentre la media Ue era del 92,6%. Quindi se con Letta i punti di distanza dal parametro europeo erano 36, con Renzi l’Italia toccano quota 40: un aumento di 4 punti. Se poi si considera che il Pil Ue è cresciuto e quello italiano – che pure sul finire del 2013 aveva registrato una timida stabilizzazione – no, il dato è negativo per l’ex sindaco di Firenze, uno dei peggiori degli ultimi lustri.
Industria, con Letta si produceva di più
Non meglio sono andate le cose sotto il profilo della produzione industriale. Lo scorso gennaio, ultimo mese dell’era Letta, il dato aveva registrato un 1% tondo di crescita, meglio della media Ue a 18 che era stata negativa dell’1,1 per cento. Con Renzi rispetto a letta l’Italia fa un passo indietro di un punto, abbastanza da passare dalla fase positiva a quella negativa.
Imprese in crisi, 300 giorni di promesse e scarsi risultati
Non aiutano certo le grandi crisi industriali identificate dal premier con le tre T, quelle di Terni, Taranto e Termini Imerese. Dove la prima si è chiusa da poco con un accordo seguito a una durissima trattativa, mentre le altre due languono irrisolte dopo quattro governi che si sono dimostrati incapaci di gestirle. Anche qui la svolta renziana, complice la scelta di un ministro dello Sviluppo economico incolore, non si è vista. Anzi. Nel caso dell’impianto siciliano della Fiat, il premier è riuscito anche a metterci la faccia quando la scorsa estate è andato di persona a rassicurare gli operai di Termini annunciando un fantomatico investitore cinese che non si è mai palesato. Chi si è fatto avanti, invece, è stato il gruppo di “avventurieri” della Grifa al quale il dicastero di Federica Guidi, con la sigla di un preaccordo, aveva socchiuso l’accesso a 250 milioni di euro pubblici. Salvo poi scoprire dai giornali che gli aspiranti produttori di auto ibride non avevano un soldo in tasca. Non va affatto meglio a Taranto, dove la svolta renziana doveva passare per la riesumazione di un instancabile boiardo di Stato di 72 anni, Piero Gnudi. Una scelta che lo stesso Renzi deve aver finito col rimpiangere, visto che in queste ore si parla sempre più insistentemente della nomina a breve di un nuovo commissario dell’Ilva a soli sei mesi dalla staffetta Bondi-Gnudi. Cambio di testimone che, se i piani anticipati trapelati saranno confermati, ufficializzerà anche il fallimento del processo di vendita del gruppo dell’acciaio che occupa 11mila persone oltre all’indotto. Toccherà quindi allo Stato farsi carico – secondo Repubblica al 49% accanto al tandem Mittal-Marcegaglia al 51% – di buona parte del problema che include 1,8 miliardi di bonifiche da fare, 35 miliardi di richieste per danni ambientali e debiti per quasi 2 miliardi.
Disoccupati, con Renzi 156mila in più
A fine febbraio, quando Letta lascia, i disoccupati in Italia erano 22 milioni e 259mila, sostanzialmente invariati rispetto al mese prima. Il tasso pari al 12,9%. Dopo otto mesi di “cura” Renzi la disoccupazione non solo non scende, ma addirittura sale. L’ultimo dato è di ottobre e parla di un tasso record al 13,2%: i senza lavoro sono in pratica saliti in un anno da 3,124 a 3,410 milioni. L’aumento è di ben 286mila persone, 130mila nei 4 mesi del governo Letta, e 156mila negli 8 mesi del governo Renzi. Che significa poi, in soldoni, non solo più povertà e più spesa sociale ma anche un ulteriore “scollamento” nella competitività sullo scacchiere internazionale: la distanza dal parametro comunitario (12%) si fa ancora più marcata. Anche l’occupazione è stata al centro di annunci, subito controversi, che ora si possono verificare. A fine novembre Renzi aveva indicato un aumento del numero assoluto di occupati, invitando a guardare il bicchiere mezzo pieno oltre al dato preoccupante della disoccupazione. “Il tasso di disoccupazione ci preoccupa, ma guardando i numeri il dato di occupati sta crescendo. Da quando ci siamo noi ci sono più di 100 mila posti di lavoro in più”. A stretto giro però fu smentito da sindacati, giornalisti ed esperti di politiche del lavoro. Renzi aveva preso come termine temporale non l’intero periodo in cui ha governato (dal 22 febbraio in poi) ma il dato da aprile (uno dei dati più bassi dell’anno) e quello di settembre (il più alto). Ebbene rifacendo i conti includendo però tutti i mesi - a partire da marzo, il primo in cui il premier è stato stabilmente in carica e fino a ottobre compreso - il bilancio dei nuovi posti di lavoro risultava addirittura negativo: -31 mila posti di lavoro.
Riforme, 144 i testi di legge di Letta contro i 119 di Renzi
Il ritornello dura da quasi un anno: da quel “sulle riforme gli ultimi dieci mesi sono un elenco di fallimenti” enunciato il 16 gennaio nella prima direzione del Pd sotto la sua guida, Renzi imputa sistematicamente a Letta la lentezza e la scarsa prolificità della sua azione di governo. Ma cosa dice il tabellone, ora che la corsa tra i due premier misura gli stessi metri? Che lo scalpitante Renzi è battuto nell’iniziativa legislativa dal compassato Letta che lo stacca di oltre 25 misure. In dieci mesi il governo Renzi ha emanato 119 provvedimenti legislativi contro i 144 di Letta. Il dato quantitativo, va detto, non è di per sé indice del valore dei provvedimenti. Si potrebbe obiettare che c’è legge e legge, che le misure in eccesso siano magari disposizioni secondarie ma non è così: al netto di disegni di legge talvolta considerati impegni di poco conto, come le ratifiche di accordi internazionali (40 by Letta, 35 by Renzi), il differenziale tra i due governi resta marcato. E gli effetti degli annunci renziani non si sono visti: la legge elettorale riposa sotto 17mila emendamenti; la riforma costituzionale, bandiera dell’esecutivo Renzi e pretesto per il defenestramento del predecessore, langue in Parlamento ostaggio delle turbolenze interne al patto del Nazareno; il nuovo Senato è fermo al palo; il Jobs Act è diventato legge solo il 16 dicembre e mancano i decreti attuativi: la prima tranche è stata annunciata in zona Cesarini per la vigilia di Natale.
Fiducie, vince Renzi 32 a 13
Diverso anche il rapporto con il Parlamento. Dopo 600 giorni l’esecutivo Letta ha all’attivo 52 provvedimenti divenuti effettivamente legge. Renzi, nei suoi 300 giorni, è fermo a quota 22. Questione di tempo, ma non solo. L’ufficio legislativo della Camera ha misurato per IlFattoQuotidiano.it alcuni indicatori statistici rilevanti come la propensione al ricorso alla fiducia per far passare progetti di legge più o meno ordinari, che è sempre segnale di debolezza di un esecutivo. Nei suoi 10 mesi Letta ne ha fatto ricorso 13 volte, Renzi 32 volte, quasi il triplo.
Fondi pubblici ai partiti, la riforma dimenticata
Il differenziale resta marcato anche in tema di iniziativa legislativa. Ma dove sono poi andate a finire le rispettive leggi? Il bonus da 80 euro se lo ricordano tutti, perfino chi non l’ha mai visto. Alzi la mano, invece, chi ricorda al volo una qualsiasi riforma di Enrico Letta. Zero di zero, il vuoto. Eppure l’abolizione del finanziamento pubblico dei partiti – la riforma che ogni anno lascia 60 milioni di euro nelle tasche degli italiani e cambia alla radice il modo di fare politica – porta la sua firma. Così come l’avvio dei piani straordinari per il rilancio dell’edilizia scolastica e il pagamento dei debiti della Pubblica Amministrazione, che poi Renzi ha raccolto e portato avanti. Ma nessuno ricorda che erano farina del sacco altrui. Merito della maggiore enfasi posta sulla comunicazione dall’esecutivo Renzi, abile nell’ascrivere tra i propri meriti la paternità di provvedimenti varati dal precedente.
Debiti Pa, Letta ha stanziato 47 miliardi sui 56 a disposizione
In primavera Renzi, ospite di Porta a Porta, aveva promesso il pagamento di tutte le pendenze della Pa verso le imprese entro il 21 settembre, giorno di San Matteo: “Altrimenti – gigioneggiava il 13 marzo con Bruno Vespa – lei va in pellegrinaggio a piedi da Firenze a Monte Senario”. Al 31 dicembre 2013 i crediti certi valevano 56,8 miliardi. La scommessa, si sa, è persa ma non è questo il punto. Chi ha fatto di più per sciogliere il cappio che strozza le imprese? A dare avvio all’operazione straordinaria di restituzione è stato Letta: con il Dl 35/2013 ha messo a disposizione 40 miliardi per i debiti esigibili al 31 dicembre 2012, con il Dl 102/2013 ha incrementato il fondo di altri 7,2. Renzi, invece, del suo ci ha messo ben poco: nella Legge di Stabilità 2014 ha aggiunto 0,5 miliardi e nel decreto 66/2014 altri 8,8. In totale siamo a 47,2 contro 9,3. Il premier ha però il merito di aver facilitato lo sblocco degli stanziamenti, anche se la procedura burocratica a carico delle imprese rimane farraginosa. Per questo il problema al momento è tutt’altro che risolto: secondo l’ultimo aggiornamento disponibile, datato 30 ottobre 2014, i debiti effettivamente pagati sono fermi a 32,5 miliardi a fronte dei 56,2 miliardi stanziati, a copertura grossomodo al 58% dei crediti. Quasi uno su due, in sostanza, manca all’appello.
Edilizia scolastica, i fondi risalgono al 2013
Idem per l’edilizia scolastica. Chi ci ha messo di più? Con i decreti legge 69 e 104 del 2013 il governo Letta ha stanziato 1,7 miliardi per la costruzione, la riqualificazione e la messa in sicurezza degli edifici. A beneficiare della fatica è poi stato Renzi che ha dato corso all’attuazione dei primi interventi personalizzando l’operazione con vari hashtag: #scuolebelle, #scuolesicure, #scuolenuove. Ma i soldi, alla fine, sempre quelli sono. Anche se l’ex sindaco di Firenze ne aveva annunciati il doppio: “Un piano per le scuole – 3,5 miliardi – unità di missione – per rendere la scuole più sicure e rilanciare l’edilizia”, si leggeva nella slide numero 20 con cui il neopremier aveva condito la conferenza stampa del 12 marzo a Palazzo Chigi.
Leggi, con Renzi tempi più lunghi
Altro dato significativo è la dilatazione dei tempi tra la deliberazione delle misure e la pubblicazione in Gazzetta Ufficiale, indice di volta in volta di una difficoltà sul fronte della stesura delle leggi stesse, del reperimento delle relative coperture o nel rapporto col Quirinale che le deve controfirmare. Facendo di conto, si scopre ad esempio che i tempi medi tra esecutivo Letta e Renzi si sono dilatati significativamente, perfino con le misure d’urgenza. Tra emissione e pubblicazione dei provvedimenti l’esecutivo Letta impiegava mediamente 5 giorni, con Renzi 9. Tanto che l’urgenza di alcune misure viene in parte smentita dal calendario: il record di Letta è di 15 giorni con la legge n. 149 che ha abolito il finanziamento pubblico ai partiti, quello di Renzi è il dl. 74/2014 contenente Misure urgenti in favore delle popolazioni dell’Emilia-Romagna colpite dal sisma che impiegherà 24 giorni per passare dalla deliberazione in Consiglio dei Ministri alla pubblicazione in Gazzetta. Quasi un mese, alla faccia dell’urgenza.
Decreti attuativi, Renzi li taglia, ma ne produce di nuovi
Il tallone d’Achille di ogni governo è la montagna di decreti delegati e regolamenti attuativi che sono demandati ai singoli ministeri e che arrivano in ritardo – anche di anni – rispetto alla misura cui fanno riferimento. Senza, la legge è carta straccia. Renzi aveva preso di petto la questione. Informato che lo attendeva una montagna di 889 provvedimenti da attuare, ereditata dai governi Monti e Letta, aveva sbottato così: “E’ inutile fare leggi se non si applicano, è allucinante”. Seguiva l’annuncio di una terapia d’urto per dare certezza alle misure: limite di 60 giorni per l’approvazione, principio del silenzio assenso tra amministrazioni, potere sostitutivo della Dpcm in caso di ritardo. Ma l’impalcatura è crollata, alcuni pezzi sono stati imballati e spediti alla legge delega di riforma della Pa. Tempi lunghi, insomma. Il governo Renzi ha ridotto della metà lo stock di quelli ereditati (ne restano 410), ma nel frattempo il fardello dei decreti inattuati ha continuato a crescere per effetto delle sue stesse leggi. Se Letta ha lasciato 415 decreti da adottare, in riferimento a 110 provvedimenti non conclusi, Renzi ne ha aggiunti 274 riferiti a 33 provvedimenti pubblicati in Gazzetta Ufficiale (16 sono auto attuativi). Ancora mancano 5 decreti alla legge che aboliva le Province (L. 56/2014) pubblicata in Gazzetta ad aprile, nove mesi fa. E giù cascata tutte le altre. Un esempio? Nel 2012 è stata approvata la legge che ha introdotto l’Agenda Digitale, che dovrebbe agganciare 1,7 miliardi di fondi europei. Da allora sono stati approvati solo 18 dei 53 provvedimenti attuativi che la renderebbero operativa. Insomma, neppure lui ha davvero invertito o fermato la tendenza dilatoria delle burocrazie ministeriali. Il punto è che se n’è accorta pure l’Europa: gli annunci di riforme non coincidono con la realtà. L’11 novembre scorso la Commissione Ue ha inviato all’Italia il suo rapporto sugli squilibri macroeconomici e ha rilevato “incertezze” sulle misure indicate dal governo Renzi nell’aggiornamento del Def (Documento di economia e finanza): troppe, dice la Commissione, quelle che “aspettano la piena approvazione o i decreti attuativi e quindi i risultati restano incerti”.
Sondaggi, fiducia in picchiata per l’ex sindaco
In ultimo, va rilevato, pare se ne siano accorti pure gli italiani. Secondo diversi studi e sondaggi la fiducia verso Renzi, dopo 300 giorni, è in picchiata. Nella rilevazione settimanale per DiMartedì su La7, l’Ipsos di Nando Pagnoncelli quota il Pd al 35,1%. Anche per l’istituto Piepoli, nel sondaggio realizzato per l’Ansa, non è un bel periodo per i dem, che in una settimana perdono un punto e calano al 37%. Un po’ meglio va secondo Lorien Consulting (39% nell’ultima rilevazione effettuata per Italia Oggi), che vede al ribasso la fiducia nel premier: al momento del passaggio della campanella, il governo Letta aveva un indice di fiducia del 47%, spiega Lorien: oggi il governo dell’ex sindaco di Firenze è al 46%. Una parabola discendente fotografata dall’illuminante tweet di Pagnoncelli sull’opinione che gli italiani hanno del premier: “Trend giudizi positivi su Matteo Renzi: oggi 49%; novembre 49%; ottobre 54%; settembre 61%; giugno 70%; marzo 64%”. Stesso discorso per la rilevazione Ixè per Agorà: a ottobre la fiducia nel premier veleggiava ancora sopra il 50%. Due mesi dopo il suo gradimento precipita al 40%. Comunque sia il tempo che porta i nodi al pettine, a sorpresa, si rivela tiranno con Renzi e galantuomo con Letta.
Ha collaborato Marco Pasciuti