Report continua la sua campagna contro le multinazionali della moda. Dopo lo scandalo Moncler, questa volta tocca a Gucci, azienda che viene accusata dalla Gabanelli di utilizzare il marchio Made in Italy nonostante costringa gli artigiani toscani ad avvalersi di manodopera cinese per la produzione della pelletteria.
Il contesto in questo caso è chiaro, a fronte di un costo di mercato di 31 euro per una borsa (venduta poi al pubblico tra gli 800 e i 900 euro) Gucci, secondo Report, paga gli artigiani 24 euro a borsa. Questa impostazione porta le aziende locali a doversi servire di manodopera cinese, che abbatte i costi e diminuisce i tempi di produzione.
Gucci si dissocia da questa ricostruzione, dichiarando la sua estrema attenzione alla filiera produttiva italiana, ma, come succede sempre in questi casi, la voce della replica è molto più debole dell’accusa, e si scatena la polemica sui social network.
L’hashtag #gucci è entrato nei top trend italiani su Twitter, e i post della fan page del brand su Facebook sono stati riempiti di insulti ed accuse.
L’unico social network dove la protesta non si è espansa è Google+, per via del taglio internazionale e meno legato alle dinamiche italiane. I social media manager dell’azienda in questo momento evitano ogni tipo di replica, ma il danno d’immagine, per un gruppo che fa del Made in Italy il suo tratto distintivo, è forse più importante di quello subito da Moncler, che non ha mai fatto dell’etica un suo asset di vendita.
Il potere dell’informazione, in questo momento storico, è ancora più forte del potere economico in termini di percezione. Una trasmissione su Rai3 può far sentire la sua voce più nitidamente di quella di una multinazionale. Ma la voce del suo pubblico, che è quella che poi deve essere il termometro di salute di un’azienda, ha la stessa importanza?
Rubando la frase da una serie Tv: il perdono non esiste, le persone hanno solo la memoria corta. Sarà vero anche in questo caso?