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Isis, la guerra in feluca dei soldati italiani

Non sarà pratica, ma vuoi mettere la sciccheria? Una bella feluca al posto di quell’elmetto stile stahlhelm che fa tanto nazi. Tanti bicorni alla Napoleone aggiungono poi quel tocco d’antan che non guasta davvero mai quando porti un esercito sul campo di battaglia.

Va bene, è una forzatura ma questo è grosso modo il destino dei nostri duecentottanta militari che dalla fine di dicembre dovrebbero trasferirsi a Herbil e dintorni per addestrare e “consigliare” peshmerga curdi e truppe irachene. Per fortuna che da quelle parti, al momento, di turisti se ne vedono pochini perché quando arriveranno, mimetiche addosso e armi in spalla, i nostri dovranno fare la fila alla dogana per mostrare alle guardie di frontiera il loro passaporto. Diplomatico.

Quella italiana in Iraq potrebbe così diventare la più grande delegazione diplomatica al mondo (chissà se il Guinness lo sa?), dopo che il fantasioso governo di #statesereni ha escogitato l’ultima trovata per aggirare un problema, non piccolo a dire il vero. Il governo iracheno si rifiuta infatti di firmare un accordo che garantisca l’immunità alle truppe straniere inviate laggiù per fare la guerra al Daesh (che qualcuno chiama Isis). Vecchia storia, questa. Già nel 2011 il governo di Nouri al-Maliki rifiutò di sottoscrivere un SOFA (Status of Forces Agreement, accordo sullo stato delle forze) con gli Stati Uniti e lo stesso ha fatto l’afghano Karzai durante l’ultima campagna presidenziale relativamente al prolungamento della presenza militare Usa dopo il 2014. Il copione si ripete adesso con Haider al-Abadi che non vuole negoziare un SOFA con gli Stati che intendono mandare truppe sul terreno in Iraq.

I SOFA sono accordi stipulati per garantire la permanenza delle truppe di uno Stato sul territorio di un altro stato. Ce n’è uno anche per le truppe statunitensi in Italia, tanto per dire. Garantiscono ai soldati stranieri immunità dalla giurisdizione nazionale dello Stato ospitante. Provocando molte volte non pochi problemi perché la protezione si estende a qualsiasi attività. Molti ricorderanno il Cermis, dove nel 1998 un aereo statunitense tranciò i cavi di una funivia uccidendo venti persone. I piloti, nonostante avessero violato gli ordini e le disposizioni sulla sicurezza aeronautica, tornarono negli Stati Uniti senza che gli fosse mosso nessun addebito.

Ma l’immunità diplomatica? Intanto, diciamolo, che i nostri soldati stiano partendo per le zone di guerra irachene e curde con il passaporto diplomatico, lo si è saputo solo grazie a un’interpellanza urgente di Massimo Artini, vicepresidente della Commissione difesa della Camera, ex M5S da poco espulso dal movimento, sottoscritta anche dalla sua ex collega pentastellata Tatiana Basilio e dal deputato del centro democratico Pino Pisicchio. Rispondendo alla domanda di Artini & Co., il sottosegretario Domenico Rossi, già sottocapo di Stato maggiore dell’Esercito, ha semplicemente ammesso che manderemo nostri militari in zona di guerra con la foglia di fico di un passaporto diplomatico che non nasce certo per proteggere dei combattenti. Ha in pratica metaforicamente allargato le braccia nel segno di una resa invincibile (© Andrea Pazienza).

Basterà a garantirli davvero? Anche perché il passaporto è quello del personale tecnico di ambasciata che in base alla Convenzione di Vienna del 1961 gode di una protezione leggermente attenuata rispetto ai diplomatici in senso stretto. Artini ha ribattuto a Rossi che si tratta di una scelta “non dico sconcertante ma preoccupante”, aggiungendo che non vorrebbe vedere in futuro diplomatici che rispondono al fuoco “o fare qualcosa che senz’altro non penso si faccia nelle ambasciate”.

Di casi in cui la protezione diplomatica serve a poco le cronache sono piene. Forse qualcuno ricorda la vicenda di Raymond Davis, uomo della Cia in Pakistan con passaporto diplomatico. Il 27 gennaio 2011 uccise in un mercato di Lahore due uomini che apparentemente stavano tentando di farlo fuori. La polizia pachistana lo arrestò e gli Usa dovettero farlo evadere per portarlo fuori dal carcere. E parliamo degli Stati Uniti, non di un governicchio come il nostro che in tre anni non è riuscito nemmeno a ottenere che si facesse un processo rapido ai due fucilieri di Marina arrestati in India. Del passaporto diplomatico i pachistani se ne fecero un baffo.

Una domandina semplice semplice, tanto per chiudere: ma se non ci vogliono, perché vogliamo andarci lo stesso? Perché insistiamo a spedire truppe in un posto tanto lontano quando abbiamo gli emuli del Daesh sotto casa, dall’altra parte del Mediterraneo in Libia? Non ce lo ha chiesto certo la comunità internazionale, ritornello costante per fare cose che non sapremmo altrimenti come giustificare. Sembra ce lo chiedano solo gli americani, il che certo spiega lo zelo. Speriamo solo che le feluche non facciano la fine di quella di Napoleone, venduta qualche settimana fa al re sudcoreano dei polli.