Gabriele Benucci sta diventando il biografo di Livorno. Già, di un’intera città, frammentata attraverso le voci, i volti scoloriti, le storie seppiate e sconosciute riportate alla luce dal fango della memoria come le teste false di Modigliani ripescate nei canali del Quartiere Venezia. Livorno è un crogiolo di visi scavati e quel dialetto arrogante e aspro, ma al tempo stesso solare ed aperto, Livorno è rossa (anzi amaranto) per antonomasia, comunista fin dentro le mura della Fortezza Medicea, schiacciata da quella Firenze che ne fece il suo porto, e le sue galere, e la troppo vicina, e così diversa e lontana, Pisa, nemica acerrima da sempre.
Livorno è Piero Ciampi chansonnier etilico romantico sentimentale pessimista, è Cristiano Lucarelli (non Carlo, lo scrittore noir), il calciatore che rifiutò ingaggi altissimi per giocare con la maglia della sua città, è Bobo Rondelli, altro cantautore poeta raffinato che si è accontentato del successo casalingo, ma è anche Paolo Virzì, regista candidato ai prossimi Oscar, è l’altro Ciampi, Azeglio, uno degli ultimi rispettati Presidenti della Repubblica, è Pietro Mascagni (a cui è dedicata la terrazza a grandi spicchi neri e bianchi), compositore di “Cavalleria rusticana”, i pittori Macchiaioli, tra i quali Giovanni Fattori.
Ma è il sopracitato Modì la vera icona labronica, con quell’aria bohemian e maledetto, sempre sul limite tra l’arte ed il genio e la sregolatezza, l’anarchia e la mancanza di disciplina. Livorno la devi sentire e vivere, passeggiare e respirare; a differenza di Pisa non ha un salotto buono per far fare foto ai turisti da cartolina ma ha un’atmosfera che non può essere da mordi e fuggi, la devi calpestare, la devi solcare, assaggiare come il baccalà (appunto “alla livornese”) o il ponce, alcolico e brioso, o il cacciucco di pesce povero.
Benucci, scrittore di narrativa e drammaturgo, nel suo precedente “Testa di rame” ci aveva portato sul fondo del mare con i palombari, esseri al limite del mitologico a metà tra alieni e astronauti, stavolta con quest’ultimo “Otto con” ci riconsegna alla superficie, all’onda, agli schizzi. Sempre di acqua si tratta, suo elemento principe che fa da fondale e diventa personaggio presente in ogni scena, in ogni quadro come punto di riferimento dal quale mai verremo (verranno, i livornesi) traditi. Ancora ritratti livornesi consegnatici da Benucci: il fantino Federico Caprilli che rivoluzionò la tecnica equestre, lui popolano in un mondo di aristocratici che pestò i piedi ai Savoia, e poi Armando Picchi (lo stadio cittadino dell’Ardenza è a lui intitolato) calciatore che con l’Inter di Herrera vinse tutto in campo nazionale e internazionale.
“Otto con” invece ci porta nel mondo d’inizio secolo scorso dei canottieri ed il nostro eroe di borgata è Cesare Milani, il “con”, mingherlino, esile, senza muscoli, minuto timoniere. Impossibile non ricorrere alle immagine dei Fratelli Abbagnale, ma soprattutto la voce rauca e sfinita del commentatore Giampiero Galeazzi, e di Giuseppe Di Capua. Il “con” è piccolo ma deve tenere a bada masse di muscoli e armadi d’uomini, deve incutere fiducia e rispetto, deve essere leader e guida, comandante in campo, una sorta di Napoleone. Il tenace Fabrizio Brandi (lo abbiamo visto ne “La prima cosa bella” di Virzì come ne “I primi della lista” di Roan Johnson), somiglia a Giancarlo Giannini, non perde mai le briglie della narrazione che ondeggia tra cuore e tecnica, è Cesare, gracile, smilzo, magro, sottile che a fine anni ’30 s’imbarca (è proprio il caso di dirlo) in un’avventura che lo porterà alle Olimpiadi di Los Angeles del ’32 ed a quelle di Berlino del ’36.
Ma questa è anche una storia di rivalsa e rivincita, personale, di ceto, cittadina, sociale, di forza ed ambizioni, di valori e principi, di quel qualcosa che ti muove dentro, di quelle motivazioni che contano più di allenamenti mirati, preparazione scientifica e integratori alimentari. E’ una storia di battere e levare, come in musica, una storia dove l’armonia non esiste ma esistono gli scatti, i moti, le passioni, le pulsioni, quel lanciare il cuore oltre l’ostacolo, quel fremito incontrollabile che porta a realizzare cose inaspettate ed inimmaginabili. Non erano canottieri ma “risicatori”, anzi soprannominati con un velo di superficialità e dispregiativo “scarronzoni”, e già il termine dice tutto; audaci, fieri, pronti a limare la vita, a morderne un pezzo in più per arrivare un centimetro oltre, azzannare il domani, prendersi l’oggi. Era la fame che mai li faceva cedere né arretrare, mollare il colpo o indietreggiare. Niente da perdere, tutto da conquistare.
E’ la rivincita dei rossi contro i neri fascisti burocrati di Roma che non li vogliono mandare alle Olimpiadi perché “non presentabili” e inadeguati all’evento, è la rivincita del popolo sulla borghesia, la misera Livorno contro il ricco centro sportivo Aniene (oggi il presidente è Giovanni Malagò, presidente anche del C.O.N.I.), è il riscatto dello “scarrocciare” rispetto al gentile pagaiare. Una storia di handicap sportivi e vessazioni cadute dall’alto per mettere i bastoni tra le ruote (tra i remi), stroncare sul nascere la voglia di manovali grezzi e scaricatori di porto non educati agli standard di Oxford e Cambridge. Davide ancora contro Golia. I sanguigni e combattivi che non remavano ma davano “ciaffoni” sul pelo dell’acqua. E lo scontro contro i poteri forti romani si sposta in campo internazionale contro i padroni del mondo statunitensi. Ed allora è il cinema neorealista di Cinecittà contro gli effetti speciali dei kolossal di Hollywood. Poveri ma belli che sempre arrivano secondi, beffati con soprusi e angherie annesse. Le immagini in bianco e nero su quella olimpiade nazista, le originali girate dalla regista del Fuhrer, Leni Riefenstahl, chiosano un racconto tra amarcord, nostalgia, esuberanza, vitalità, estro, ottimismo. Qui un argento vale più dell’oro.
Teatro del Sale, Firenze