"Forse non è neanche uno spettacolo, ma una forma di comunicazione improvvisata prima con me stesso e poi con il pubblico – racconta l'artista a Ilfatto.it – È teatro-canzone anarcoide che non sempre segue una scaletta predefinita... Corruzione, razzismo e fanatismo sono fatti di sempre, preferisco seguire una corrente diversa di racconto. Non amo esser un prolungamento ironico dei tg"
Il grande pubblico l’ha conosciuto nelle vesti del beffardo “citofonista” della trasmissione di Serena Dandini, Parla con me. Ma la storia artistica di Andrea Rivera ha radici più profonde e popolari. È cominciata infatti vent’anni fa per le strade di Roma, a Trastevere, dove per tanto tempo si è esibito con la sua chitarra nei locali e agli angoli delle strade. È lì che ha sperimentato il suo teatro-canzone basato sull’improvvisazione e sulla denuncia sociale, che successivamente gli ha fatto guadagnare palchi importanti e il Premio Gaber. In questi anni ha mantenuto sempre il tono ironico, irriverente e giocoso delle origini. E dopo aver provato anche l’ebbrezza della televisione, ora Rivera torna in teatro con un nuovo spettacolo. Fino al 4 gennaio presenta al Teatro Vascello di Roma Ho risorto!, un mix di improvvisazione e satira, canto e immagini. Uno spettacolo di teatro-canzone che ogni sera va in una direzione diversa perché, come lui stesso ammette, non vuole timbrare il cartellino come quando lavorava in fabbrica. “Ho risorto! forse non è neanche uno spettacolo, ma una forma di comunicazione improvvisata prima con me stesso e poi forse con il pubblico – ci racconta Rivera – È teatro-canzone anarcoide che non sempre segue una scaletta predefinita, che c’è ma non rispetto. La famosa ‘quarta parete’ teatrale, il muro immaginario che divide l’attore dallo spettatore, l’ho superata già una decina di anni fa. Ora mentalmente son fuori dalla struttura teatrale, praticamente sono di nuovo in strada, da dove ho cominciato 20 anni fa, quindi il cerchio si chiude”.
Ho risorto! sbeffeggia i meccanismi di manipolazione mediatica e sceglie di raccogliere le pulsioni sociali che provengono dalla strada. L’attore stimola il pubblico a riflettere sulla quotidianità, amplificando le notizie che molti giornali relegano nei box laterali o a fondo pagina. Prova anche a interpretare il razzismo e l’intolleranza che arrivano dalle periferie, ispirandosi alle cronache ma senza cavalcarne l’onda speculativa. “Corruzione, razzismo e fanatismo sono fatti di sempre – continua Rivera – preferisco seguire una corrente diversa di racconto. Non amo esser un prolungamento ironico dei tg, che speculano sulle morti o su fatti non da denunciare, ma da cavalcare per denaro. Io in teatro non devo fare audience per aver spazi pubblicitari. Non voglio riempire poltrone per lasciare lo spettatore nella depressione come fa oggi molta musica. Il mio canone poi costa veramente poco per quello che propongo”.
Per sintonizzarsi con le emozioni della gente comune, Rivera si serve del dialetto romanesco, ideando nuovi termini e rivisitando la sintassi. Proprio per questo motivo, quando chiediamo lumi sul titolo sgrammaticato, lui risponde: “Non è sbagliato. ‘Ho risorto!’ a Roma significa che ‘ho risolto’. È la mia resurrezione da un periodo non facile dopo il mio viaggio nel mondo della televisione. Ho sempre comunicato meglio per la strada che in tv. D’altronde Carmelo diceva Bene: la riproduzione della realtà è irreale e falso, i veri cinema son quelli con la sala spenta. Esagerato, ma altrettanto plausibile visti i film che produciamo”. Nello spettacolo musica e video rivestono un ruolo centrale. La chitarra e il mandolino di Matteo D’Incà accompagnano l’attore mentre dà voce ai suoi testi e agli stornelli. E poi c’è anche un brano realizzato con il cantautore Alessandro Mannarino. “Una canzone scritta a tre mani. Dico tre mani perché la quarta stava su una bottiglia di vino buono”.
Immancabili le immagini inedite girate nei quartieri romani: dialoghi schietti e imprevedibili con i passanti, con il giornalaio, con il “pizzicarolo”. Conversazioni originali e spesso dai toni accesi, che restituiscono il pensiero moderno dell’umanità che vive e lavora. Mentre le sue interviste al citofono diventano una sorta di audio-confessionale, che travalica qualsiasi idea di teatro chiuso fra quattro mura. “Da ragazzino passavo pomeriggi interi a citofonare a caso alle persone e a prendere in giro chi mi rispondeva. Devo dire che poi è anche un ottimo escamotage per evitare la trafila delle liberatorie necessarie all’utilizzo di un’intervista”. E infine ci spiega perché uno spettacolo sulla resurrezione abbia deciso di proporlo, in prima nazionale, a Natale e non a Pasqua, periodo sicuramente più adatto alle riapparizioni. “Perché ormai co’ sto tempo non si sa più in che tempo si vive. E poi per me Cristo è come il sole: risorge ogni giorno. Cambia solo l’orario, la domenica infatti vado in scena alle 18”.