C’è persino quello che è arrivato in bicicletta. Si è agganciato la go-pro al caschetto, ed è qui che sgomma in giro per il fronte in solidarietà ai curdi.
Con la battaglia di Kobane, assediata dallo Stato Islamico ormai da tre mesi, in Siria all’improvviso sono riapparsi i pacifisti. Quelli di sempre, un po’ disordinati, un po’ caciaroni, inconfondibili: la chitarra, la kefiah al collo. Alcuni sono medici, o distribuiscono coperte, pane, aiutano nei campi profughi, altri, semplicemente, sono qui per fare controinformazione, spiegare i diritti dei curdi in un blog, una radio locale – sono elettricisti, impiegati, ingegneri. Usano così le loro ferie. Esistono guerre dimenticate – chi di noi, in questo momento, sta seguendo il Sudan? la Nigeria? – ma qui, caso unico al mondo, l’amnesia è selettiva.
I curdi sì. Il resto dei siriani no.
Perché per la Siria non si è mai avuta una mobilitazione come quella che si è avuta per la Bosnia, o per l’Iraq? Per il Kosovo? Forse è l’ora di dirlo senza giri di parole. Non si è avuta perché il movimento pacifista ha scelto di schierarsi con Assad. Oggi Assad è rientrato in gioco, è vero, e tutti riconoscono che l’accordo finale, quale che sarà, non potrà che includerlo: perché non ha vinto la guerra, ma neppure l’ha persa – ma Assad è rientrato in gioco perché questa guerra è stata lasciata marcire per tre anni. E soprattutto, un conto è accettare, amaramente, che pezzi di un regime rimangano al potere, come avviene in fondo in molti dopoguerra: un altro è condonare un presidente che rovescia barili di tritolo sui suoi cittadini. Il posto giusto, per Assad, non è Ginevra, il tavolo dei negoziati, è l’Aja. La Corte Penale Internazionale. Ma tutto questo è fuori dell’orizzonte di discussione della sinistra – o qualunque sia la definizione più esatta.
La sinistra, semplicemente, sta con Assad perché Assad è contro gli Stati Uniti. O meglio: perché la primavera araba non è che un’operazione eterodiretta dalla CIA. Continuo a sentirmelo ripetere da tanti. Da troppi. Tra i pacifisti, tra gli attivisti, domina una lettura malinconicamente vecchia e datata del Medio Oriente, basata su una mappa del mondo e dei rapporti di forza che non esiste più da anni. Gli Stati Uniti ormai sono solo uno degli attori in campo – e spesso non quello decisivo. Ma per tanti la scelta è facile. Perché il mondo, per loro, è facile: è in bianco e nero – la domanda è una sola: dove stanno gli Stati Uniti? E si schierano all’estremo opposto.
Parli di 200mila morti, 3 milioni di rifugiati, 6 milioni di sfollati, e ti senti dire che “però Assad” ha sempre sostenuto i palestinesi, e che è per questo che vogliono eliminarlo, perché è un bastione contro Israele. Una cosa a cui non hanno mai creduto neppure i palestinesi. Che sono stati invece il pretesto perfetto, per Assad e molti altri, per governare attraverso la polizia, e rinviare ogni minima riforma, ogni minima apertura democratica, in uno stato di emergenza permanente. Perché la priorità era sempre la resistenza al nemico sionista.
Nonostante il momento difficile, la primavera araba rimane una straordinaria battaglia per la libertà e la dignità, combattuta con coraggio da una generazione esclusa da tutto. Ventenni, trentenni condannati a campare alla giornata, espropriati della vita da élites che si sono spartite potere e ricchezza – con complicità e connivenze trasversali a ogni religione. Io che appartengo alla stessa generazione di piazza Tahrir, e che quando sono arrivata al Cairo non ho potuto non notare quanto l’Egitto di Mubarak, torture a parte, fosse simile all’Italia: la disoccupazione endemica, la corruzione, il nepotismo, la malamministrazione – io, trentenne esclusa dal futuro, dalla sinistra mi sarei aspettata l’opposto. Che la primavera araba fosse sostenuta.
E più che sostenuta: che fosse eletta a esempio.