Scena uno. E’ il 5 novembre 2014 e Barack Obama si presenta davanti ai giornalisti per commentare la débâcle del suo partito, e il trionfo repubblicano alle elezioni di midterm. Dice di essersi congratulato con lo speaker della Camera, John Boehner, e di “essere pronto a lavorare con i repubblicani”. In quelle ore, i commenti riflettono sulla sconfitta del presidente e molti prevedono, per Obama, due anni di totale irrilevanza politica. Scena due. E’ il 19 dicembre 2014. Obama si ripresenta davanti ai giornalisti per la conferenza di fine anno. Appare tranquillo, rilassato. Scherza con i giornalisti, dice di volersi battere “per migliorare la vita degli americani”. L’immagine del presidente in difficoltà dopo il midterm sembra un lontano ricordo.
Tra i due momenti è passato un mese e mezzo, eppure il contesto politico e umano è completamente ribaltato. Non si tratta soltanto di un’impressione. In questi quarantacinque giorni Obama ha fatto più cose – e ben più rimarchevoli – di quante se ne ricordino in periodi ben più lunghi della sua presidenza. Citiamone alcune. Il sostegno alla “net neutrality”. Un accordo sul clima con la Cina. Un ordine esecutivo che vuole proteggere dalla deportazione almeno cinque milioni di immigrati senza documenti. Lo storico accordo con Cuba per la riapertura delle relazioni diplomatiche.
A questo va aggiunta anche la relativa tranquillità con cui Obama ha navigato due crisi che potevano rivelarsi molto pericolose: le torture della Cia e le proteste razziali. Nella prima, Obama ha difeso l’agenzia, posto il segreto di stato su molti punti dell’inchiesta e impedito alla Commissione Intelligence di visionare migliaia di pagine di documenti che probabilmente si sarebbero rivelati ancor più devastanti per la Cia. Al contempo, non ha però fatto niente per impedire la pubblicazione del rapporto del Senato che inchioda l’agenzia alle sue (terribili) responsabilità.
Discorso simile per quanto riguarda il tema della giustizia razziale, che ha preso fuoco per le strade d’America dopo gli assassini di Michael Brown ed Eric Garner. Anche qui, non era facile per Obama, primo presidente afro-americano, restare fuori da polemiche e richiami di parte. Come già nel passato, anche in questa occasione Obama ha però rifiutato di prendere posizione e farsi strumento di una “politica etnica”. Ha difeso la polizia ma ha riconosciuto il diritto di protestare per gli omicidi di Brown e Garner. Proprio nella conferenza di fine anno, Obama ha poi detto qualcosa che illustra molto chiaramente il suo pensiero: “I neri stanno meglio di quando io arrivai alla Casa Bianca, ma le differenze tra bianchi e neri restano”.
Se a questo si aggiungono due altre vicende che possono, sia pure di riflesso, rafforzare la posizione interna e internazionale dell’amministrazione Obama – e cioè le difficoltà dell’economia russa e i primi cedimenti dell’Isis sotto l’attacco congiunto di aerei Usa e peshmerga curdi – si avrà il quadro completo di una presidenza che appare improvvisamente rivitalizzata e di un presidente ben lontano dall’essere quell’“anatra zoppa” che molti anticipavano. Di qui la sicurezza esibita nella conferenza di fine anno, la fiducia nella “capacità degli americani di risolvere i problemi e di lavorare insieme”. E anche l’atteggiamento tutt’altro che subordinato mostrato nei confronti dei repubblicani. Se dopo le elezioni di midterm Obama aveva detto “sono pronto a collaborare”, con un’espressione che più o meno rivelava il sentimento di un vinto, a fine anno ha spiegato di voler collaborare con gli avversari “su riforma delle tasse, commercio, sviluppo delle infrastrutture”. Come a dire, questa volta l’agenda la decido io.
In queste settimane molti si sono interrogati sull’improvviso cambio di marcia e forse l’analisi migliore l’ha fatta Douglas Brinkley, uno storico molto vicino a questa amministrazione. “Non è più preoccupato dalle cose della politica”, ha spiegato Brinkley, “la politica a questo punto è un problema di Hillary Clinton o del prossimo candidato democratico. Obama può essere ora il vero Obama”. Sollevato del peso delle ultime elezioni del suo secondo mandato, quelle del novembre 2014, l’attuale presidente può dunque essere veramente se stesso; può governare tornando, almeno in parte, alle promesse del 2008; può cercare di corrispondere all’immagine di un presidente davvero innovativo, che cercò di trasmettere durante quella campagna per certi versi indimenticabile. Può, in altre parole, guardare alla Storia, al giudizio che la Storia darà sulla sua permanenza alla Casa Bianca, più che alle contingenze della politica.
Lo aiutano, in questo senso, due considerazioni. La prima riguarda i repubblicani. Non c’è nessun presidente, nella storia recente degli Stati Uniti, forse neppure l’odiatissimo, dalla destra, Bill Clinton, che abbia catalizzato una tale virulenta opposizione. Dalla battaglia feroce contro la riforma sanitaria alle barricate sulla legge per il “gun control” alle frequenti minacce di impeachment alle accuse dei vari Tea Party di essere “un socialista e un islamico”, non c’è un solo episodio in cui l’opposizione abbia mostrato segni di volere un compromesso. Questo avveniva nella precedente legislatura, quando i repubblicani controllavano un ramo del Congresso, e avverrà nei prossimi mesi, con i repubblicani in controllo di Camera e Senato insieme. Obama lo sa e ha deciso di andare avanti da solo, con gli ordini esecutivi e con tutti quegli strumenti che la Costituzione gli mette a disposizione.
Ma Obama non si sente soltanto più libero nei confronti dei rivali. Paradossalmente, a questo punto, il presidente ha le mani più libere anche nei confronti dei compagni di partito: quei democratici che non hanno mai nascosto la loro irritazione verso Obama, che hanno spesso accusato la Casa Bianca di essere una sorta di fortino presidiato da amici e confidenti del leader. Da parte sua, Obama non ha mai mostrato molta considerazione nei loro confronti. Di formazione professore e attivista, il presidente non ha legami profondi con la struttura del suo partito e ha più volte manifestato la sua frustrazione nei confronti di Washington. “L’orso è finalmente libero”, ha detto scherzando lo scorso maggio, quando nella capitale è sceso dalla macchina presidenziale e si è messo a fare, finalmente, un giro a piedi. Con i democratici senza maggioranza al Congresso, Obama non ha più bisogno di venire a patti nemmeno con loro.
Stanno qui le ragioni del rinnovato attivismo di Obama, che nelle prossime settimane dovrà, presumibilmente, misurarsi su altre questioni, in primo luogo il futuro della Keystone XL Pipeline. Si tratta di una strategia tutta d’attacco, che mira a ribaltare la prassi che fa del secondo mandato presidenziale un periodo di solito travagliato (fu così per Clinton e Ronald Reagan), e che presenta ovviamente dei rischi. In primo luogo, acutizzare l’opposizione repubblicana in vista del 2016; soprattutto, proseguire in quel processo di rafforzamento del potere esecutivo che sembra ormai un dato di fatto, non sempre positivo, del sistema americano. Ma a questo punto Obama pensa a se stesso e alla sua immagine futura. Più che un presidente “alla Lyndon Johnson”, politico capace di produrre riforme straordinarie attraverso grandi capacità di negoziazione con il Congresso, Obama mostra di guardare sempre di più a Franklin Delano Roosevelt, che affidò la sua eredità storica a una valanga di radicali, e innovativi, ordini esecutivi.