“Nessun Paese può più difendersi da solo dagli attacchi informatici”. È questo il credo ormai condiviso all’interno del National Information Security Center, l’organismo deputato dal governo giapponese alla sicurezza informatica del Sol Levante. Secondo quanto rivelato nelle ultime ore dal magazine Nikkei Asian Review, il governo di Tokyo starebbe cercando di rafforzare gli accordi di cooperazione in materia di sicurezza informatica con i principali partner della regione Asia-Pacifico, ovvero Australia e Associazione dei paesi del Sudest asiatico (ASEAN).
Rivelazioni che arrivano all’indomani dell’esplosione del caso “The Interview”, il film distribuito dalla Sony Pictures nel quale viene messa in scena l’uccisione del leader nordcoreano Kim Jong Un. Dopo aver confermato di essere stata vittima di attacchi informatici, negli ultimi giorni la casa di distribuzione del lungometraggio, Sony Pictures – casa giapponese con sede negli Usa – ha paventato il ritiro del film dal mercato per paura di nuove azioni di sabotaggio.
Oltre che dai recenti avvenimenti, la necessità di rafforzare la cooperazione sulla sicurezza informatica – non solo con partner storici come gli Stati Uniti e la Gran Bretagna, ma anche con i Paesi emergenti del Sudest asiatico – pare dettata dal crescente numero di casi di attacchi informatici ai danni delle istituzioni del paese-arcipelago, passati in poco più di un anno da uno a poco più di 5 milioni e in gran parte (97 per cento) provenienti dall’estero. “C’è un pressante bisogno di rafforzare la cooperazione internazionale in materia”, ha spiegato al magazine economico un funzionario del governo giapponese rimasto anonimo.
Secondo quanto riportato dalla Nikkei Asian Review, è intenzione del governo di Tokyo scambiare informazioni e mettere a punto strategie condivise con i partner, nonché sfruttare l’expertise tecnologica domestica per mettere a punto strumenti per limitare i danni e prevenire nuovi attacchi da parte degli hacker.
I primi passi della cooperazione sono già stati mossi nei primi mesi del 2014. A inizio febbraio si è tenuta a Tokyo la prima conferenza nazionale per “white hat hackers”, gli esperti informatici che mettono le loro conoscenze e capacità al servizio della difesa dagli attacchi in Rete – intitolata “Code Blue”. Poche settimane più tardi, il 18 marzo, la prima esercitazione di sicurezza informatica, uno dei primi veri preparativi per le Olimpiadi del 2020. L’esercitazione ha riunito cinquanta “white hat” per testare le capacità di risposta a emergenze informatiche che potrebbero riguardare 21 tra ministeri e agenzie di Stato e una decina di associazioni industriali.
Più di recente, a ottobre di quest’anno, funzionari del governo di Tokyo hanno incontrato a Pechino le loro controparti sudcoreane e cinesi per il primo tavolo trilaterale in più di due anni di diplomazia congelata proprio per trovare una via condivisa contro i cyber-crimini. “Garantire la sicurezza informatica – aveva spiegato a maggio il ministro della Difesa, Itsunori Onodera – è una sfida estremamente importante per la sicurezza nazionale e la gestione delle crisi nel nostro Paese”.
Secondo alcuni, però, c’è ancora molto da lavorare. È l’opinione ad esempio di Ryoichi Sasaki, docente della Tokyo Denki University – una delle prime istituzioni accademiche giapponesi ad introdurre un programma di laurea magistrale in “cyber-security” – che in apertura della seconda Code Blue a Tokyo lo scorso 18 dicembre, ha spiegato come il giudizio internazionale riguardo la sicurezza informatica giapponese “non sia necessariamente buono”. Non a caso, entro il 2016 Tokyo punta a introdurre una certificazione nazionale per professionisti del settore.