Lunedì 22 dicembre è stata avviata la costruzione dell'impianto a Karmi, nella zona industriale. La fabbrica prevede un investimento di 20 milioni di dollari e a pieno regime darà lavoro a circa mille persone
Un grave, gravissimo ritardo sulla concorrenza: si spiega forse così l’annuncio dato dalla Coca Cola, che presto aprirà un nuovo impianto nella Striscia di Gaza. Alle leggi di mercato non si comanda: la concorrente per antonomasia della bibita con le bollicine, la Pepsi, ha una fabbrica attiva nell’enclave palestinese che dal 1962 produce 7Up e dal 1997 anche Pepsi Cola. Imperdonabile. E così lunedì 22 dicembre è stata avviata la costruzione dell’impianto a Karmi, la zona industriale di Gaza, dopo che il Coordinatore delle attività di governo dell’IDF nei Territori (COGAT) ha dato il suo benestare all’ingresso nella Striscia dei materiali scrupolosamente controllati. Si tratta dello stesso organismo di coordinamento tra governo israeliano e autorità palestinese che a inizio 2014 aveva dato il benestare all’impresa.
La fabbrica prevede un investimento di 20 milioni di dollari e a pieno regime darà lavoro a circa mille persone, mentre all’inizio è previsto l’impiego di 150-360 persone. I materiali vengono dalla Giordania, sono entrati in Israele attraverso il terminal Yizhak Rabin e sono stati introdotti nei Territori attraverso il valico di Kerem lunedì pomeriggio. Si tratta per la precisione di nove camion con macchinari per il nuovo impianto. I responsabili del progetto sono due imprenditori palestinesi, Munib al-Masri e Zahi Khouri. Quest’ultimo è il presidente della Palestinian National Beverage Company, che ha già la licenza per la Coca Cola in franchising in Cisgiordania. Per l’avvio ufficiale della produzione sono attese altre consegne dalla Germania e dalla Turchia, in maniera da essere operativi nel tardo 2015 con le bibite gasate e passare nel 2016/17 a produrre anche succhi e bibite non gasate. “La costruzione della fabbrica è ultimata – ha fatto sapere il direttore generale Emad al-Hindi – e speriamo di concludere tutte le fasi mancanti senza ostacoli”.
La Coca Cola Company ha annunciato che – oltre a contribuire all’occupazione e all’economia locale – la nuova fabbrica avvierà anche programmi sociali nella Striscia. Si vedrà. Quel che è certo è che i palestinesi (e molti altri arabi) hanno per anni boicottato la celebre marca statunitense, per il suo duraturo e ingente sostegno finanziario a Israele, e lo stesso vale per il movimento internazionale di ‘Boycott Israel’, che ha uno dei suoi target principali proprio nella compagnia di Atlanta. E di certo un tale cambio di rotta non ha valenza solo economica. Durante l’operazione militare estiva, sono state moltissime le infrastrutture e le fabbriche colpite, tanto da far dire ad alcuni che fossero un target ben preciso per indebolire le capacità economiche già scarse della Striscia, già duramente provate dal blocco economico che soffoca l’economia della Striscia dal 2007, quando Israele lo impose a seguito della vittoria di Hamas alle elezioni.
D’altro canto i gazawi non possono permettersi di andare per il sottile: la situazione di Gaza è drammatica, dopo l’offensiva “Margine protettivo” che tra luglio e agosto ha ucciso 2200 palestinesi (73 i morti israeliani) e raso al suolo migliaia di edifici: i dati aggiornati da poco dalle Nazioni Unite parlano di settemila case completamente distrutte e 89mila danneggiate (all’inizio ne erano state contate 42mila), che significa che ora circa 100mila palestinesi sono senza un’abitazione agibile. Israele ispeziona scrupolosamente ogni carico di aiuti in ingresso a Gaza per il timore che possa entrare materiale di supporto a Hamas. La ricostruzione è ferma e anche le donazioni promesse all’indomani del conflitto tardano ad arrivare, mentre i colloqui di pace sono miseramente arenati.
Oxfam ha contato che fino a novembre erano entrati a Gaza 287 camion con 40 tonnellate di materiali edili, sulle 7mila tonnellate necessarie. Dei 720 milioni di dollari chiesti dall’Unrwa (l’agenzia Onu per i rifugiati palestinesi), ne sono arrivati solo 100. Il che significa non poter assistere gran parte della popolazione in questi mesi invernali e non poter fare pressoché nulla per la ricostruzione. E sul totale degli aiuti promessi dai donors internazionali alla conferenza del Cairo, 5,4 miliardi di dollari, ne è arrivato il 2 per cento: nulla, proprio nulla dai paesi arabi che si erano impegnati e ben poco dall’Europa, ad eccezione della Svezia.
Intanto anche la diplomazia arranca: il presidente palestinese Abu Mazen ha da poco nominato un gruppo che avvii colloqui con Hamas per prendere il controllo dei valichi tra Gaza e Israele, subentrando a Hamas stesso, come richiesto dagli accordi abbozzati all’indomani dell’operazione militare. La diplomazia internazionale nel frattempo è divisa fra la presa di posizione dell’Unione Europea, favorevole al riconoscimento dello Stato di Palestina, e quella degli Stati Uniti, di cui si preannuncia l’ennesimo veto all’Onu, dove entro la fine dell’anno è previsto il voto del Consiglio di Sicurezza sulla risoluzione presentata dall’Anp per il ritiro israeliano dai Territori occupati. Abu Mazen ha dichiarato che se la risoluzione sarà respinta, l’Autorità palestinese interromperà ogni cooperazione con Israele.
E intanto, a pochi giorni dalla sentenza della Corte di giustizia europea che ha annullato l’iscrizione di Hamas nella lista europea delle organizzazioni terroristiche, giunge notizia del secondo raid israeliano in pochi giorni sull’enclave palestinese, a est di Khan Younis, nel sud della Striscia: il primo era stato nella notte fra il 19 e il 20 dicembre, a seguito del lancio di un razzo Qassam, caduto in territorio israeliano senza fare danni; la risposta israeliana era stato il primo raid aereo dalla fine delle ostilità, col lancio di due missili contro una presunta base di un gruppo armato. E col secondo raid è partito il consueto scambio di accuse: Israele ha attaccato dopo che dalla Striscia sono partiti dei colpi di arma da fuoco. Ma il ramo militare di Hamas denuncia di aver risposto all’uccisione di uno dei suoi membri da parte di colpi israeliani. Si tratta di Tayseer al-Ismary, 33 anni, colpito a est di Khan Younis. In Israele nella Striscia si teme una nova escalation.