L’America e in particolare Wall Street sono stati l’epicentro della crisi. Ma nel motore dell’economia americana i cilindri rimanevano in grado di funzionare. Perché negli Usa le crisi spazzano via i detriti del tempo, delle illusioni e delle certezze, mentre nell’Europa vecchia e imbolsita suscitano struggenti nostalgie e aneliti di ere mitiche mai esistite. Il Pil americano già nel 2011 aveva superato il livello pre-crisi. Il motore di molti paesi europei rantolava nello sforzo di trascinare la zavorra di settori obsoleti e protetti e di una forza lavoro troppo spesso costosa e rigida. Senza contare il peso del settore statale ipertrofico.
Per questo il carburante delle misure straordinarie di politica monetaria e fiscale in America per quanto si possa discutere delle dimensioni e dell’estensione (le diatribe si protrarranno per decenni) hanno prodotto una scossa. In Europa la crisi avrebbe dovuto segnare l’occasione per cambiare il motore o almeno ripararlo. Invece ci si culla nell’idea di riempire il serbatoio a credito.
Un’altra delle differenze sostanziali tra le due sponde dell’Atlantico è stata la determinazione nell’affrontare la crisi bancaria. Beninteso l’approccio in entrambi i casi è stato fin troppo benevolo e non ha colpito con la severità che sarebbe stata sacrosanta i responsabili di mancanze gravi e truffe plateali. Tuttavia in America pragmaticamente si è spalato fango (per non evocare sostanze anche meno nobili di varia tossicità) dai bilanci dei grandi gruppi bancari, mentre in Europa i responsabili della supervisione finanziaria hanno inscenato mediocre pièce teatrali chiamate stress test, oscillando tra Jonesco, Beckett e Pulcinella.
L’assorbimento dello choc post Lehman anche in America è stata un’arrampicata con molti passaggi delicati, e di sicuro non è ancora conclusa.
Se prendiamo i dati del World Economic Outlook del Fmi, il numero di occupati nel 2007 in media era di poco superiore ai 146 milioni; nel 2014 la cifra sarà grosso modo identica, nonostante la crescita demografica. Il tasso di disoccupazione è sceso sotto il 6% perché molti, patito il gelo dell’inoccupabilità, hanno chiesto e ottenuto trattamenti di invalidità mentre altri hanno rinunciato a cercare lavoro. A granularità più fine poi emerge un altro aspetto non trascurabile: negli Stati che non hanno beneficiato di gas e petrolio da shale, l’occupazione a ottobre 2014 era ancora alquanto inferiore rispetto a gennaio 2008. Tutta la crescita netta degli occupati in America (quasi un milione e mezzo) si è concentrata negli Stati del boom energetico.
In definitiva oltre alla flessibilità l’America ha goduto di un discreto colpo di fortuna proprio al momento giusto. Sulla sostenibilità nel medio periodo del resto aleggia qualche dubbio. La scomposizione dei dati lascia una traccia di amaro; ad esempio i consumi sono cresciuti a causa delle spese mediche che l’Obamacare ha fatto lievitare. Gli investimenti, che costituiscono il vero volano della crescita, invece hanno dato un robusto sostegno, ma hanno ancora molta strada da percorrere.
Nel 2006 rappresentavano il 19,1 del Pil, poi nel 2007 per effetto della crisi incipiente calarono al 17,3%, un livello storicamente basso, che però è lo stesso atteso per il 2014. Sul versante positivo la crescita si sta irrobustendo mentre lo stimolo fiscale si affievolisce. Alla chiusura dell’anno fiscale 2014, avvenuta il 30 settembre, il deficit pubblico era fermo al 2,8% del Pil, grazie a una crescita delle entrate del 9% e ad una sostanziale rigidità della spesa (+1%). Per effetto dei freni imposti dal Congresso repubblicano a Obama, il debito pubblico si è stabilizzato intorno al 105% del Pil e fra un paio di anni dovrebbe iniziare la discesa.
Il Fatto Quotidiano, 23 dicembre 2014