Digeriti il capitone e lo zampone? E l’impepata di cozze? Vomitati gli insulti, tanto resta tutto “en famille”. Certo che il Natale attira come il parafulmine le sfuriate intorno al panettone farcito. E c’è chi lo evita come la peste bubbonica. Mio marito, Luca Simoni, dice che si è completamente perso il senso anche solo estetico del Natale. Non parlo del messaggio cristiano, che è raccolto dai soli addetti ai lavori, ecclesiastici e missionari, ma della bellezza dell’atmosfera che ci incantava da bambini.
Tutto si riduce a prezzi ribassati e luminarie cinesi che sarebbero più adatte a un casinò di Macao che non alle strade della cristianità. Un senso di gelo, di freddezza emanato da televisori, telefonini, computer, schermi piatti e tablet, che bippano e gracchiano voci elettroniche che scandiscono filastrocche e canzoni della nostra infanzia con la stessa grazia di un mostro meccanico da film spazial horror.
Le città di questi giorni sono mondi surreali e grotteschi di vetrine stracolme di prodotti inutili ignorate dai passanti. Davvero una pena. Non si vede l’ora che finisca tutta questa pantomima elettronico-commerciale che finirà a sua volta divorata dall’orgia dei saldi di inizio anno e dalla mestizia del gelido gennaio dalle casse esauste. Il Natale siffatto non ci fa più riflettere su un messaggio d’amore universale. Il Natale ci ricorda inesorabile che conduciamo vite che non ci piacciono per comperare oggetti che non ci servono.
Mia madre, Agata Piromallo, da buona cristiana, crede invece il vero Natale occorra cercarlo in mezzo agli umili, in un ospedale, in un centro di accoglienza, dove c’è odore di povertà e dolore, ma a ben annusare, lì, proprio lì, si sente l’aroma lontano della fede, e par di sentir echeggiare sottile il pianto antico del bambinello nella grotta e non il versaccio di un robot.
Come fa Adriana De Pero che da anni promuove Nyumbani, in lingua swahili significa “la casa accogliente” e di fatto è un piccolo villaggio in Kenya fatto di casette, scuola, campus sportivo, infermeria che accoglie i bambini malati di Aids. Nyumbani è un progetto pilota che fa capo al “Children of God Relief Institute”. Voluto da Padre Angelo D’Agostino nel 1992, Adriana è diventata la sua vera missionaria, il suo angelo custode e viaggia per portare Nyumbani nel mondo, per sensibilizzare i donatori. I medicinali antiretrovirali costano tantissimo, le case farmaceutiche non fanno sconti, né saldi e solo una piccola parte dei bambini possono beneficiare della terapia. Agli altri non rimane che l’amore dei volontari che li fanno sentire coccolati come in famiglia. “Amore e attenzioni che questi bambini – sorride Adriana – non hanno mai ricevuto, perché abbandonati appena nati infetti funziona da placebo. L’umanità non può chiudere gli occhi davanti a un dramma così grande”. E snocciola cifre devastanti: 3 milioni di bambini sieropositivi nel mondo che non hanno nessuna colpa se non quella di essere nati da genitori malati di Aids. Il 75% vivono nell’Africa subsahariana. E’ Natale e per chi volesse farsi un regalo di spirito, può visitare la pagina delle donazioni.
Parla e scrive in tre lingue. Poco incline all’adulazione Carmen Llera Moravia è per l’elogio della brevità. Poche parole quanto bastano. “Baltasar Gracian, gesuita spagnolo super intelligente scriveva ‘Lo bueno si breve, dos veces bueno’ (ciò che è buono, se breve, è due volte buono). Un augurio sintetico agli amici sparsi per il mondo”. E’ disciplinata, ma inquieta. Carmen vive in un equilibrio imperfetto, parte, ritorna e riparte, cambia programma all’ultimo minuto. “Mi stancano persone e cose, tutto si ripete. Un figlio adulto che vive a Tokyo: “Siamo uniti nella distanza. Nella mia famiglia è normale. Come passerò il Natale? Ignorandolo, non amo le feste. Avrebbero un senso solo per i credenti ed io non lo sono. Per i bambini forse… per il resto questo esercizio commerciale, questa bulimia, questo riunirsi in famiglia quando il resto dell’anno ci si sbrana…mah ! mi sfugge. C’est tout”.
“Per me il Natale da molti anni è il giorno dell’assenza. Mi escludo, stacco i collegamenti e tengo il fuoco acceso”, taglia corto Erri De Luca. Eppure ha dedicato una scrittura al Natale che si chiama “In nome della madre”. Perché per lui il Natale è la festa della madre, di quella ragazza madre che in mezzo alle più vaste avversità riesce a portare a termine il suo compito. Se l’è assunto in un istante e all’improvviso, senza consultarsi con nessuno. Partorisce di notte e in una delle mie pagine Miriam-Maria dice: “E’ solamente mio, è solamente mio, finchè dura la notte è solamente mio”. All’alba lo consegnerà al mondo.
Twitter@januariapiromal