Nei casi di tumore alla mammella e linfoma le cure oncologiche compromettono la funzione ovarica: le soluzioni ci sarebbero ma il Sistema sanitario nazionale non si fa carico dei farmaci anti-sterilità e la mancanza di prevenzione costringe la donna, dopo la guarigione, a una menopausa precoce e alla sterilità
Donne che dopo il cancro vogliono diventare madri: un diritto che in Italia viene negato ogni anno a 1500 pazienti sotto i 40 anni. Quelle che si ammalano soprattutto di tumore alla mammella e linfoma. In questi casi infatti le cure oncologiche compromettono la funzione ovarica (e quindi la capacità riproduttiva della donna). La soluzione ci sarebbe, ma per due motivi la maternità non viene difesa. Innanzitutto, il Sistema sanitario nazionale non si fa carico dei farmaci anti-sterilità. “Esistono due strategie diverse – spiega Lucia Del Mastro, oncologa all’Istituto tumori di Genova e membro del Consiglio direttivo di Aiom (l’associazione italiana di oncologia medica) -. La prima è una terapia ormonale, tramite somministrazione di analoghi Lhrh prima e durante la chemioterapia, che riduce la tossicità nelle ovaie. L’altra è la crioconservazione degli ovociti, più invasiva poiché richiede un intervento chirurgico. Il successo di rimanere in gravidanza è del 50 per cento”. A patto che la paziente paghi di tasca sua. Il costo per l’utilizzo dei farmaci è di circa 50 euro. Mentre per la crioconservazione sale a 900 euro. Complessivamente se la spesa fosse sostenuta dallo Stato sarebbe di circa 1,6 milioni di euro l’anno.
Ma nella metà dei casi la donna ignora di poter avere dei figli malgrado le chemioterapie. La mancanza di prevenzione è il secondo motivo che poi la costringe dopo la guarigione a una menopausa precoce e alla sterilità. “Si fa poca informazione, anche tra i medici e gli operatori – sottolinea Giulia Scaravelli, responsabile del Registro nazionale di procreazione medicalmente assistita dell’Istituto superiore di sanità -, non esiste un osservatorio nazionale e un sistema di network tra i reparti di oncologia e le strutture locali di crioconservazione dove risiede la paziente”. “Quando mi sono ammalata vent’anni fa – racconta Elisabetta Iannelli, avvocato e segretario generale Favo (Federazione italiana delle associazioni di volontariato in oncologia) – si pensava solo a salvare la pelle, della possibilità di avere una gravidanza finite le cure non se ne parlava neanche. Eppure sapere che puoi tornare a lavorare e fare una famiglia ti dà forza, ti aiuta a non pensare solo al cancro, sai che domani hai un futuro”. L’Istituto superiore di sanità ha attivato dei corsi di formazione per medici e personale sanitario in tutta Italia. E ha fatto un primo sondaggio nei centri di crioconservazione per capire quanti sono quelli che assistono anche le pazienti oncologiche: “Solo 56 su 120, per un totale di 700 pazienti seguite all’anno, bisogna farne ancora di strada – avverte Scaravelli -. Gli uomini invece vengono subito indirizzati a un centro di oncofertilità, non c’è bisogno di un’operazione chirurgica per loro, la crioconservazione dello sperma è molto più semplice”.
Due anni fa a Ilaria Ghiri, 23 anni, di Roma, è stato diagnosticato il linfoma di Hodgkin. Dopo neanche una settimana dal referto aveva già iniziato la stimolazione ovarica. “Ho fatto delle iniziazioni sottopancia, una al giorno per otto giorni, e subito dopo l’intervento per estrarre gli ovociti”. Quindi in un paio di settimane al massimo la paziente può salvare la futura gravidanza, poi è pronta per le chemioterapie. “Ero al quarto stadio B, cioè un livello avanzato della malattia. Non avevo mai avuto sintomi prima, solo qualche crisi dispnoica, credevo fosse associata allo stress da studio. Finché un giorno mi sono toccata il collo e ho sentito un bozzetto – racconta Ilaria, che da cinque anni vive a Milano, dove frequenta la facoltà di Legge in Bocconi -. Nella sfortuna sono stata piuttosto fortunata: è uno dei tumori con il più alto tasso di guarigione. L’oncologo mi ha consigliato subito di rivolgermi al centro di crioconservazione dell’ospedale Humanitas. Mi hanno fornito i farmaci gratuitamente grazie al passaparola tra le ex pazienti che avevano avanzato delle dosi. Ho congelato 22 ovociti”. Ilaria oggi è guarita. “Ogni tre mesi ho i controlli. Voglio sentirmi normale esattamente come lo ero prima del cancro. Vivere appieno significa anche diventare mamma. Avere un tumore già un’ingiustizia enorme, sarebbe stata una catastrofe non avere più potuto avere figli. Essere sicuri che dopo la malattia tutto torna a posto mi ha dato una marcia in più per affrontare le chemio”.
Una mano lo Stato potrebbe darla. Come? “Vanno modificate le due note dell’Agenzia italiana del farmaco, riconoscendo l’indicazione ‘prevenzione dell’infertilità nelle pazienti oncologiche’ alle gonadotropine necessarie alla stimolazione e raccolta di ovociti (nota 74), finora ammesse solo per le donne sterili, e agli analoghi LHRH che proteggono la funzione ovarica durante la chemioterapia (nota 51), riservate alle pazienti con tumore alla mammella – spiega Iannelli (Favo) -. Una riscrittura delle due note consentirebbe a queste pratiche terapeutiche diffuse ed efficaci di uscire dalla semi-clandestinità in cui sono mantenute”.