Le strategie del sindacato contro il palese attacco del governo Renzi ai lavoratori appaiono inutili e inadeguate rispetto ai reali termini del conflitto sociale che si sta velocemente delineando in tutta l’eurozona.

Per comprenderne i motivi bisogna partire dal “cuore” della riforma del lavoro attualmente in discussione: la modifica dell’articolo 18 incentrata sulla perdita del diritto al reintegro in specifici casi di licenziamento illegittimo. Siccome la verità è difficile da far digerire, hanno trasformato una clamorosa sconfitta dei lavoratori in un “contratto di lavoro a tutele crescenti”. Una banale operazione di marketing politico spacciata per bontà giuridica. Per un’analisi dettagliata dovremo attendere i testi definitivi.

L’idea parte da molto lontano, il dibattito sull’articolo 18 ha iniziato a prendere piede con il Libro Bianco del 2001, il quale non contiene un riferimento esplicito alla suddetta norma ma prevede degli interventi sul piano processuale – gli arbitrati in alternativa ai giudici del lavoro – che di fatto indeboliscono l’efficacia della tutela (possibilità di conferire al collegio arbitrale di optare per la reintegrazione o per il licenziamento). Il progetto di riforma relativo al processo del lavoro e in via marginale all’articolo 18 venne poi accantonato, complici le proteste provenienti dal mondo sindacale; la Cgil di Cofferati riuscì a radunare al Circo Massimo oltre due milioni di persone.

Della modifica dell’articolo 18 se ne ricominciò a discutere nel 2006 con i disegni di legge Treu-Salvi (n. 1047) e Sacconi (1163). Accantonati anche questi.

Nel 2009 ci riprova Pietro Ichino che propone, assieme ad altri parlamentari, due disegni di legge (1873 e 1481), incentrati sulla previsione di un Codice del Lavoro in sostituzione dello Statuto del Lavoratori, e del “contratto di lavoro unico a stabilità crescente”, sostanzialmente quello di cui si discute in merito al Jobs Act, un modo per indebolire l’articolo 18. Ma anche questo ulteriore tentativo di Ichino viene messo da parte, niente da fare.

Colpo di scena! La storica modifica viene attuata nel 2012 dal governo ‘tecnico’ di Monti (cosiddetta riforma Fornero), al primo tentativo laddove la destra italiana aveva sempre fallito. Di quali istanze politiche si fa portavoce Monti? Basta leggere il contenuto della famosa lettera inviata nel 2011 dalla Bce al governo Berlusconi per rendersene conto: i ‘mercati’ mediati dalle rappresentanze dell’Ue (“ce lo chiede l’Europa”) nella veste di Troika. Anche il FMI, infatti, aveva e continua ad esprimere valutazioni politiche sul nostro sistema di tutele pressando il paese affinché vengano indeboliti i diritti dei lavoratori, anche con l’introduzione un “contratto unico di assunzione a tutele crescenti”.

Da almeno tre anni, le politiche economiche e del lavoro vengono di fatto decise dalla Troika, che detta di fatto le regole per la gestione politica del conflitto sociale a favore del capitale internazionale. Siamo quindi nel pieno di una lotta di classe che vede come principale interlocutore politico dal lato del “padrone” enti finanziari internazionali e l’Ue. Sempre in merito all’articolo 18, è stato lo stesso presidente di Confindustria Squinzi che proprio in merito alle modifiche apportate dalla riforma “Fornero” aveva dichiarato che “la licenziabilità dei dipendenti è forse l’ultimo dei nostri problemi”, anche se ultimamente ha cambiato idea circa l’importanza della sua abolizione, ma questa è un’altra storia.

Stiamo quindi assistendo ad un mutamento radicale delle forze politiche in campo, la Troika con il benestare del governo ha fatto saltare i tavoli di concertazione, e questo spiega probabilmente l’affondo di Renzi contro le organizzazioni sindacali che, proprio perché non adeguano la propria azione sindacale all’evolversi del quadro economico, finanziario e politico di riferimento, sono sostanzialmente innocue. Dopo quarant’anni dalla sua entrata in vigore, la modifica dell’articolo 18 tanto voluta dalla destra italiana ha visto la luce solo perchè rispecchia le politiche neoliberiste su cui si fonda l’operato della Troika.

Fin quando l’Italia esercitava un certo grado di autonomia politica, l’equilibrio di forze fra capitale e lavoro veniva più o meno garantito, ed in effetti sino all’arrivo del governo Monti una certa parte sindacale era riuscita ad arginare i tentativi di scardinamento strutturale del lavoro “stabile”, nonché della stessa forza di rappresentanza collettiva. Adesso che tramite una serie di trattati e accordi internazionali gli obiettivi del capitale finanziario internazionale e delle multinazionali sono stati anteposti agli interessi dei lavoratori e della piccola e media impresa italiana (da qui l’aumento di tasse e politiche di restrizione dei consumi, svalutazione del lavoro e ingenti piani di salvataggio europei delle banche internazionali con soldi pubblici), o il sindacato si rinnova e si riposiziona nel nuovo conflitto di classe, oppure esce di scena.

Per fare ciò è ovviamente necessario che esso affronti i grandi temi da cui dipende il futuro del lavoro in Italia: finanziarizzazione dell’economia, avvento delle politiche neoliberiste, un modello di sviluppo delle multinazionali che non è adeguato ad una crescita democraticamente sostenibile, il ruolo politico delle organizzazioni finanziarie internazionali, il pareggio di bilancio, l’euro ed altre importanti questioni di cui avremo modo di discutere e che ho ampiamente descritto nel mio libro “Il ricatto dei mercati”.

Non ci si può lamentare della deriva del nostro diritto del lavoro se non si affronta la radice del problema, la Troika è solo una delle sue ramificazioni, il capitale finanziario aveva già manifestato la sua forza dirompente, specialmente nel mondo del precariato, e nulla di importante è stato fatto per arginarlo. I call center sono stati un vero e proprio campanello d’allarme, ed anche di questo avremo modo di parlare.

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