I muri erano incrostati fino al soffitto di fumo e di sporco. Dentro, un odore infernale. Infissi rotti, porte sparite, sanitari divelti. Dopo anni di insulti e affitti non pagati. Dopo liti furibonde con i vicini, auto parcheggiate nel posto sbagliato, rifiuti gettati dalla finestra. Dopo mille rimproveri e polemiche eravamo finalmente riusciti ad eseguire lo sfratto.
Serviva un segnale, un esempio virtuoso, per provare a ricominciare, cambiando rotta. Si chiamano regole e qualcuno le ha fatte perché tutti le rispettino, non per trovare il modo di eluderle furbescamente. E’ stato questo il primo (uno dei pochi, a dire il vero) risultati portati a casa nella gestione della delega al patrimonio del mio Comune. Nella gestione delle case popolari.
In Italia ci sono circa 700mila famiglie in attesa di assegnazione per 45mila alloggi di edilizia residenziale pubblica disponibili ogni anno. Restano in lista d’attesa un sacco di tempo, e spesso quando arriva il loro momento per entrare trovano una situazione scandalosa. Un terzo degli alloggi sono sfitti perché i comuni non hanno i soldi per metterli a posto, e gli strumenti per intervenire celermente quando serve. E mentre la povertà cresce e nel resto d’Europa si continua ad investire massicciamente nella realizzazione di nuove case popolari, noi le lasciamo cadere a pezzi e le svendiamo per incassare briciole che usiamo per mascherare buchi di bilancio sempre più grandi.
La prima cosa da fare sarebbe quella di restituire allo Stato la responsabilità di gestire una partita così importante. I Comuni (e le agenzie regionali) non sono in grado, troppe debolezze e tentazioni (aggiustare un regolamento per evitare una grana o favorire qualcuno magari in cambio di un voto) e troppi pochi mezzi per far bene il proprio mestiere: gestire un patrimonio su cui un tempo si è investito e che oggi è lasciato all’incuria e all’abbandono. Servirebbero risorse, non cercare di recuperarne svendendo tutto. Servirebbe far rispettare le regole, e prevedere “paracaduti sociali” per le famiglie che vanno in tilt economico e non ce la fanno a pagare canoni di locazione comunque bassissimi. Servirebbe costruire alloggi nuovi, evitando gli errori di un passato che prevedeva interi condomini e quartieri come un ghetto, dove “rinchiudere” i casi sociali alimentando così un disagio collettivo difficilmente governabile (nelle periferie delle grandi città così come nei piccoli paesi di provincia).
Gli enti locali potrebbero (forse dovrebbero) farsi invece carico di un ruolo di mediazione e immaginazione, sfruttando la conoscenza del territorio che le sentinelle della cittadinanza quali sono gli assistenti sociali hanno, e lavorando immergendo mani e cuore nella corrente di una comunità per costruire progetti di integrazione e convivenza. Esempi ce ne sarebbero da cui trarre spunto: mediatori culturali che promuovono momenti conviviali in grado di superare divergenze e malumori; spazi comuni che favoriscono lo scambio e il confronto, iniziative che incentivano una cittadinanza attiva e coesa, sono alcune delle tante possibilità su cui varrebbe la pena spingere, avendo ben chiaro che investire nell’integrazione e nel superamento dei conflitti occorre un po’ più di tempo che organizzare una conferenza stampa per annunciare l’ennesima svolta (che tanto dopo, a microfoni spenti, non arriva…).
Ma forse, come sostiene Emanuele Ferragina nel suo libro “La maggioranza invisibile” (da leggere attentamente) la fetta di popolazione che “ruota” attorno alle case (im)popolari non rientra nei piani di sviluppo di una classe dirigente interessata a produrre consenso ad ogni costo solo per quei pochi (sempre meno) che si ostinano a credere che in questo Paese le cose possano cambiare affidandosi all’uomo forte (guarda caso, sempre un uomo) di turno…