Il risultato è abbastanza incerto. Anche perché le pressioni internazionali sono forti. Da un lato c’è chi teme per la tenuta della moneta unica. Soltanto poche settimane fa il Presidente della Commissione europea Junker invitava i cittadini greci a non fare “scelte sbagliate” e a non premiare gli “estremisti”. Dall’altra ci sono i creditori che ovviamente farebbero di tutto per assicurarsi che il debito pubblico greco, che ammonta a 322 miliardi di euro, sia interamente ripagato.
Subito dopo che il premier Samaras ha deciso di anticipare le elezioni presidenziali, originariamente previste per fine febbraio 2015, i mercati ed i partner europei sono andati in fibrillazione. La borsa di Atene ha subito un crollo del 13 per cento. Non per l’elezione in sé, dal momento che il Presidente della Repubblica in Grecia ha un ruolo formale, ma per le ripercussioni politiche che avrebbe avuto il meccanismo dei tre turni, che in caso di fallimento riapre la strada delle urne.
E l’elemento di instabilità internazionale è Alexis Tsipras, il leader di Syriza, il partito della sinistra radicale che al momento è in testa ai sondaggi. La Grecia ha un sistema elettorale proporzionale con un premio di maggioranza di 50 seggi per il primo partito. Quindi, anche se il margine di vantaggio di Syriza non è molto ampio, quasi 3.5 punti in più della Nuova Democrazia di Samaras, è molto probabile che se la coalizione di governo non riuscirà, entro lunedì prossimo, a conquistare tra le fila dell’opposizione i 12 voti mancanti per eleggere Dimas Presidente della Repubblica, a inizio del 2015 Alexis Tsipras diventerà Premier.
Anche se forse non si concretizzerebbe in un governo monocolore (a Syriza servirà probabilmente una manciata di voti esterni per ottenere la maggioranza in parlamento) sarebbe comunque la svolta finale di un’ascesa politica fulminante. Che non può non essere letta alla luce della crisi economica e del memorandum firmato dalla Grecia con la Commissione Europea, il Fondo Monetario Internazionale e la Banca Centrale Europea (la troika, per intenderci) per essere salvata dal default. Basti pensare che nei suoi primi 8 anni di vita, dal 2004 al 2011, Syriza, originariamente concepita come coalizione della sinistra socialista e delle forze politiche ambientaliste, non è mai andata oltre la soglia del 5 per cento. Alle elezioni del 2012, dopo due anni di cura neoliberista, Syriza è diventata la seconda forza politica del Paese, costituendosi come partito unitario.
Ora la Grecia è sull’orlo di una crisi umanitaria. L’aumento delle tasse, i tagli al settore pubblico e le sforbiciate ai salari, richiesti dalla troika, hanno distrutto l’economia del Paese. Un greco su quattro, e quasi un giovane su due, non hanno un’occupazione. La povertà infantile è al 40 per cento (nel 2008 era al 23 per cento). Molti dipendenti pubblici hanno perso il lavoro. Tante attività commerciali sono fallite.
A mano a mano che la crisi allungava i suoi tentacoli su tutti i settori della società l’elettorato ha iniziato a perdere fiducia nella coalizione centrista di governo e si è avvicinato agli estremi del sistema politico. Syriza, da piccolo partito radicale di opposizione, si è ritrovata ad essere la prima forza politica del Paese. Ma ovviamente una volta raggiunti certi numeri ha dovuto alleggerire alcune sue posizioni, che avrebbero precluso una così ampia adesione popolare. Nel 2012 Tsipras ed i suoi compagni di partito parlavano, tra le altre cose, di nazionalizzazioni delle banche, di reintegro in massa di lavoratori pubblici, di sospensione dei pagamenti degli interessi sul debito pubblico, e di una politica estera libera dall’influenza euro-atlantica.
Ora, dopo due anni vissuti da secondo partito, pronto a diventare forza di governo, Syriza è certamente uno schieramento meno radicale. Subito dopo l’annuncio delle elezioni presidenziali anticipate Tsipras ha rassicurato i mercati dichiarando che anche in caso di una sua vittoria la Grecia resterà nell’euro. La parola d’ordine di Syriza ora è “rinegoziare”. Rinegoziare le condizioni imposte dalla troika in cambio dei prestiti salva stato, invertendo il trend dell’austerità. Ed allo stesso tempo cancellare parte del debito pubblico (più del 50 per cento secondo John Milios, uno dei consiglieri economici del partito), e indicizzare la parte rimanente alla crescita economica (la “clausola di sviluppo”), invece di ripagarla attraverso tagli al bilancio.