Sua Maestà l’orso Paddington arriva nei cinema italiani. E quale miglior giorno per celebrarlo se non quello di Natale? Dettofatto, è il distributore Eagle Pictures a sfidare cinepanettoni & co. proponendo in centinaia di sale uno dei miti dell’eredità letteraria inglese per infanzia alla comprensione del pubblico tricolore.
Forse perché “ogni famiglia dovrebbe avere un orso in casa” per far funzionare gli equilibri domestici. Se poi l’animale è parlante, rispettoso e civilizzato come Paddington ancora meglio. Questi, per intenderci, corrisponde al peluche più famoso del Regno Unito: orsetto marrone dagli occhi dolci con un grande cappello rosso in testa e un montgomery blu “a tasche larghe per il sandwich d’emergenza”, e con una valigetta a penzoloni. Di lui una statua onoraria campeggia nel cuore della swinging Carnaby Street, ma lo si trova in ogni souvenir shop d’Albione in versione pelosa o stampato su borse, mug, teiere, grembiuli e bombette, spesso e volentieri travestito da Bobby, guardia reale e via dicendo mutando dunque in meta icona che più British non si può.
La sua invenzione risale al 1958 e si deve allo scrittore Michael Bond, oggi 88enne, che del suo romanzo tradotto in 40 lingue sull’orso peruviano spedito a Londra a cercar casa ha venduto 35 milioni di copie. Anche la tv l’ha celebrato con la serie prodotta da FilmFair dal titolo Paddington Bear trasmessa dal 1975 al 1986, segnando per sempre l’immaginario di svariate generazioni di anglosassoni. Inclusa, non a caso, Nicole Kidman che confessa di “essere cresciuta leggendo e guardando Paddington in tv” e di non aver esitato un istante ad accettare il ruolo di cattiva del film.
Malvagia e bellissima in caschetto platino, la star australiana è Milicent, la figlia dell’esploratore a cui si deve – 40 anni prima – la scoperta della specie di orsi a cui appartiene Paddington ora in via d’estinzione. Tanto il padre fu magnanimo nell’impedire che esemplari fossero trasferiti a Londra, tanto la figlia è diventata una perfida impagliatrice di bestiole, sapientemente disposte a ornamento del suo laboratorio all’interno del Natural History Museum. Paddington non può mancare alla sua collezione ed è per questo che una volta scoperto il suo arrivo nella capitale inglese decide di dargli la caccia per immolarlo.
A difenderlo è la famiglia Brown: padre noioso ed esperto di sicurezza, madre svitata e illustratrice (una solare Sally Hawkins), figlia adolescente ossessionata dalle brutte figure e figlio piccolo inventore genietto. Dopo alcune reticenze ad “adottare” l’orso parlante, decidono di tenerlo con sé in casa, perché a conti fatti l’animale altro non cerca che una “home”, nel senso più profondo del termine inglese. Il nome Paddington arriva casualmente dal cartello della stazione ferroviaria dove è stato trovato dai Brown, ai confini esterni della West End.
Il dato geopolitico non è trascurabile: parecchi migranti approdarono a Londra in questa stazione tra la fine del XIX e inizi XX secolo, e la vicenda dell’orsetto orfano altro non è che una fiaba su un senzatetto, alla ricerca di ospitalità e accoglienza. Il film scritto e diretto dal giovane Paul King, è una classica e divertente commedia per famiglie universale con tocco British, che rende onore all’attualissima ma tradizionale storia “del diverso abbandonato in terra straniera”. L’ascendenza è chiaramente dickensiana e chapliniana, ma trova nello specifico un’altra non casuale fonte d’ispirazione, specie in riferimento alla trasposizione televisiva anni ’70: è del 1966 infatti il più famoso film per la tv sugli homeless inglesi – Cathy Come Home – trasmesso da BBC1 nella cornice delle Wednesday Play. Il regista? E chi altri se non Ken Loach.
Il Fatto Quotidiano, 27 dicembre 2014