Il 2014 è stato un anno di “rivoluzione copernicana, in cui è cambiato il ritmo della politica”. Il 2015 sarà quello della svolta definitiva, in cui l’Italia “ricomincerà a correre”, a dispetto dei “gufi che scommettono sul fallimento”. E dunque il presidente del Consiglio Matteo Renzi nemmeno nell’ultimo incontro dell’anno con i giornalisti ha lesinato il consueto riferimento al valore assoluto della velocità, la vera e propria unità di misura del suo programma di governo: i parametri valutativi dei prossimi dodici mesi saranno ispirati a “#ritmo” e a “senso sano dell’urgenza”, costi quel che costi, perché è “meglio essere giudicati arroganti che disertori”.
Per l’intera durata della conferenza stampa di fine anno, da tempo uno dei più importanti appuntamenti di comunicazione istituzionale per ogni inquilino di Palazzo Chigi, Matteo Renzi ha snocciolato parole d’ordine, dati, hashtag estemporanei, prospettive d’azione del suo esecutivo. Era la sua prima conferenza stampa da presidente del Consiglio e l’ha affrontata esattamente nel modo che tutti prevedevamo: a suo agio come se nella vita non avesse mai fatto altro. Perché mai è apparso in difficoltà, e sempre, invece, è sembrato padrone della scena e del canovaccio, arrivando a concedersi l’evocazione pop del “coach” Al Pacino in Ogni maledetta domenica: per incitare gli italiani a crederci, “centimetro su centimetro, a non arrendersi ai ‘gufi’”, in quella che, giusto in conferenza, Fabio Martini de La Stampa ha propriamente definito opera di “pedagogia collettiva” dell’ex sindaco di Firenze.
Nelle due ore e mezzo di confronto con la stampa, molto frequente è stato il ricorso a “ovvietà unificanti” e “dribbling dialettici”: le prime per blandire gli italiani che seguivano l’evento in diretta tv, cioè coloro i quali sono e saranno sempre gli esclusivi, reali destinatari di riferimento di qualunque iniziativa di comunicazione del premier; i secondi per glissare (piuttosto spesso) sulle questioni più spinose. Ecco dunque il mantra della necessità di cambiamento dell’Europa, perché “chi vuol bene all’Europa dice che l’Europa deve cambiare”; o l’evergreen della riforma dell’impiego statale, perché “chi non lavora bene dev’essere mandato a casa” e “chi ruba, ruba e va messo in galera, ché gli sconti si fanno al supermercato, mica ai corrotti”. E chi non sarebbe d’accordo? Il premier e segretario del Pd azzarda poi qualche affondo decisamente ambizioso, vista la congiuntura negativa, quando arriva ad affermare che “l’emblema ideologico di questo governo” sarebbe “la riduzione delle diseguaglianze”, come testimoniano gli “80 euro” e il tetto agli stipendi dei supermanager statali. Nel frattempo, sulle agenzie infuria il fuoco di sbarramento del pasdaràn Renato Brunetta: “La conferenza di Renzi è il vuoto cosmico”.
Quanto all’imminente elezione del Presidente della Repubblica, vediamo invece il premier svicolare apertamente, perfino con qualche fastidio e irrisione nei confronti dei giornalisti presenti. Perché, dice il premier di Rignano sull’Arno, “io non partecipo a ‘Indovina chi?, Avrà i baffi? E il cappello?’, io mi occupo di temi più interessanti per il Paese”. Come se l’elezione del futuro inquilino del Quirinale non fosse di pubblico interesse. Stesso atteggiamento anche di fronte agli incalzanti riferimenti del presidente dell’Ordine dei Giornalisti Enzo Iacopino riguardo all’editoria italiana e alla riforma della professione giornalistica: “io guardo anche la serie ‘Newsroom’, mi piace la ‘funzione sociale’ del giornalismo ma il mondo è diverso da 15 anni fa”, è tutto ciò che si riesce ad ottenere come risposta.
Della comunicazione di Matteo Renzi molto si è discusso e molto si continuerà a discutere. Christian Raimo, su minima et moralia, ha colto il carattere ambivalente della retorica del premier, pragmatica e allo stesso tempo fortemente emozionale, finalizzata com’è non alla convinzione o all’aver ragione, quanto invece al consenso, alla creazione di “un partito di massa che si identifica e compatta non più in un particolare tipo di bisogni materiali o di ideali, ma in una condizione emotiva”. “La nuova coscienza di classe è quella di un popolo di ansiosi”, in cui il premier riuscirebbe perfettamente a immedesimarsi e che ambirebbe, in qualche modo, a “curare”.
Dalle colonne del Fatto Quotidiano, Olivero Beha qualche giorno fa registrava come dato acquisito il fatto che nel governo Renzi la comunicazione sembri ormai detenere un autentico “primato” sulla politica: “Sembra sempre che lui, il più bravo dei suoi, e i suoi sulla sua falsariga facciano politica per comunicarla e non comunichino la politica che fanno”.
Nello Barile, docente all’Università Iulm, ha dedicato al tema un saggio, dato alle stampe alcune settimane fa da Egea, intitolato Brand Renzi. Anatomia del politico come marca. Secondo Barile, il brand di Matteo Renzi ha seguito, negli anni, lo stesso percorso evolutivo dei grandi marchi negli anni novanta. L’informalità, lo spontaneismo e l’autenticità sono i valori strategici che hanno consentito a un italiano di trentanove anni di scalare la propria forza politica e di accreditarsi quale “unica rivoluzione plausibile in un Paese irretito o arretrato da decenni di partitocrazia”. Sulla scia del principio per cui “è molto più facile cambiare il programma del partito che la testa della gente”, proprio come i brand globali anche il brand-Renzi “è una superficie elastica, capace di estendere il suo campo d’azione sui mondi di vita degli elettori/consumatori, per ricavare da ciò nuovi contenuti programmatici con cui può rigenerare continuamente la sua immagine e la sua offerta”; un dispositivo di significazione “in grado di elaborare materiali sparsi, eterogenei, talvolta contraddittori con la sua stessa storia e identità”.
E forse è stata proprio questa idea elastica e mutevole della propria essenza programmatica ad aver consentito a Matteo Renzi di presentarsi, nella conferenza di ieri, quale paladino della lotta alle diseguaglianze, a soli cinque giorni dall’approvazione di un provvedimento come il Jobs Act che squilibra invece in modo definitivo i rapporti di forza tra parti datoriali e lavoratori del nostro Paese.