Il filosofo e leader dei movimenti bolognesi del '77 commenta gli episodi di disapprovazione delle scelte politiche di governo tra scioperi dei lavoratori, occupazioni di case, e manifestazioni studentesche: "Il paradosso dell’oggi è che da un lato c’è chi sta morendo di asfissia da lavoro e dell’altro cresce il numero di chi non lavorerà mai o rimarrà precario per la vita"
“Se c’è una nuova forma di azione della protesta sociale nell’ultimo periodo è la disperazione”. E Franco “Bifo” Berardi a commentare gli episodi di disapprovazione delle scelte politiche di governo tra scioperi dei lavoratori, occupazioni di case, e manifestazioni studentesche. “C’è la consapevolezza che non esiste più un interlocutore, una soggettività con cui interagire, a chi ci si riferisce ad un algoritmo? All’Europa, che chissà chi è? E questa disperazione tende a farsi azione suicidaria”, spiega al fattoquotidiano.it il filosofo e leader della protesta bolognese del ’77.
Le grandi manifestazioni sindacali del 25 ottobre e del 12 dicembre 2014, o anche solo le proteste montanti di precari del terziario (come accaduto a Bologna nell’improvviso sciopero di tutte le dipendenti di un negozio d’abbigliamento in pieno shopping natalizio ndr), fanno riemergere il ragionamento su un conflitto “di classe” che sembrava sepolto: “All’inizio degli anni ottanta il sindacato scelse di battersi per il posto di lavoro invece della riduzione del tempo di lavoro. Era una battaglia ragionevole, meno tempo dedicato al lavoro ma lavoro per tutti, a cui invece ha rinunciato. Oggi la classe lavoratrice non può che trovarsi sulla difensiva. Perché di lavoro non ce n’è più bisogno. Faccio un esempio: Google ha investito recentemente nella robotica e il suo fondatore ha spiegato che si andrà verso una settimana lavorativa di 4 giorni”.
“Strategicamente il sindacato non può fermare o resistere alla tendenza in atto dell’attacco del capitale – spiega Bifo – semmai con gli scioperi e le agitazioni può mettere in moto e risvegliare un’intelligenza collettiva sepolta. Ma la battaglia persa oltre 30 anni fa non può essere vinta oggi”. Il paradosso dell’oggi, specifica l’autore di Come si cura il nazi, è che da un lato c’è chi “sta morendo di asfissia da lavoro, lavora sempre di più, assurdamente” e dell’altro “cresce il numero di chi non lavorerà mai o rimarrà precario per la vita perché di questo lavoro non ce n’è più bisogno”.
Le forme di protesta e disagio sociale sembrano aver intrapreso anche la strada delle occupazioni di case e stabili vuoti da anni per soddisfare il bisogno minimo di una casa: “E’ evidente, anche questa è un’azione di protesta importante. A Bologna, ma anche a Milano, che ho seguito, dove tra case occupate sono sorte anche forme di università popolare, di mercatini, ecc… Certo non sono manifestazioni nuove, ma oggi possono estendersi in maniera particolare. Semmai sono azioni che irritano altri settori della popolazione e innescano lotte tra italiani e stranieri. Sia chiaro, è una forma indispensabile di lotta, ma non vincente sul lungo periodo. Ripeto: solo agendo sul tempo del lavoro, quindi rinunciando all’idea dell’aumento obbligatorio della crescita che genera miseria, paura e violenza, possiamo aprire il discorso sociale nella sua compiutezza”.
Infine le manifestazioni No Tav, con un corollario politico ancora confuso, anche solo nell’ultimo sabotaggio contro i binari dell’alta velocità a Bologna: “Vengo dall’esperienza delle lotte degli anni settanta dove ci si trovava di fronte alla lotta armata e ci veniva continuamente chiesto se eravamo d’accordo. Ieri, e oggi, rispondo: non la approvo e non la condanno. Di fronte ad una manifestazione di disagio sociale, anch’essa senza carattere di trasformazione vincente, dovremmo iniziare a comportarci da medici e non da giudici. Poi certo al progetto originario europeo della Tav non crede più nessuno, nemmeno chi l’ha ideato, ma non speriamo di poter generalizzare la lotta unica di un’intera popolazione della Val di Susa, che badate bene sta resistendo ad uno stupro, a livello nazionale”.