Quante Europe, nel semestre di Presidenza di turno italiana del Consiglio dell’Ue: Matteo Renzi e tutti i suoi corifei ce l’hanno annunciata ‘nuova’ e ‘diversa’ (non ‘altra’ perché quello è il marchio d’una sinistra alternativa), più politica e meno burocratica e tecnocratica, addirittura (25 novembre) “senza approcci da algoritmo”. Bello, ma che vuol dire?
Le formule si sono sprecate, in una sorta di crescendo: “L’Europa non si chiuda in un recinto dorato” (6 novembre); “L’Europa sia speranza o perde una generazione” (ancora il 25 novembre); “L’Europa cambi verso o sarà la Cenerentola del Mondo, se si riduce a uno scontro di ragionieri non avrà futuro” (1 dicembre); “L’Europa è al bivio, o cambiamo direzione o la perdiamo” (16 dicembre); e, lo stesso giorno, “la politica non la consegni ai tecnocrati”; “Il partito degli euroscettici crescerà, se non cambiamo l’Europa, e si prenderà Paesi dalla grande, grande tradizione europea” (29 dicembre); e, ancora, “Il nostro modello è la Germania, sono convinto che potremo fare meglio della Germania”; “O l’Unione s’allarga o perde un’occasione… Quando qualcuno mette in forse l’ingresso nell’Ue dei paesi balcanici come l’Albania, sbaglia di grosso” (30 dicembre, a Tirana).
Un’antologia di affermazioni, spesso apodittiche, molte condivisibili, alcune efficaci. Talune consciamente false: l’ingresso nell’Unione dei Paesi balcanici candidati, ad esempio, è escluso prima del 2020 –e la diplomazia italiana lo sa bene. Certo, il premier si spende con Tirana, come con Belgrado e –su un altro piano- con Ankara, un sostegno all’adesione sapendo che non dovrà comunque pagare pegno, perché a frenare ci pensano altri.
Ma la sostanza del semestre d’Europa all’italiana, che, sia detto per inciso, finisce alla mezzanotte di oggi, 31 dicembre, quando la Lettonia assume la Presidenza di turno, e non il 13 gennaio, come, per convenienza politica interna, Renzi va dicendo.
“Mi piace pensare che il 2014 sia stato l’inizio d’una Europa casa della speranza e non più solo luogo della burocrazia”, afferma il premier, con un’altra formula. Ora, a parte che il 2014 si chiude a crisi greca riaperta, con conseguenti ansie da ‘effetto contagio’, la presidenza italiana non poteva fare miracoli, specie in un semestre segnato da avvicendamenti istituzionali e dall’inevitabile stasi dei processi legislativi e decisionali europei, e non li ha fatti.
I risultati concreti ottenuti sono modesti e appaiono persino deludenti, se confrontati con le attese della vigilia. I progressi nell’integrazione ci sono: l’Unione bancaria è in porto –ma già lo era; l’euro s’allarga domani a 19 con la Lituania –ma già si sapeva; il negoziato tra Ue e Usa per l’area di libero scambio transatlantica va avanti –ma non c’è stata nessuna accelerazione particolare. E, durante il semestre, passi avanti sono stati fatti sul fronte dell’immigrazione e su altri dossier.
Ma su quello che più sta a cuore all’Italia, il cambio d’accento da rigore a crescita, ci sono più parole che fatti: il ‘piano Juncker’ da 21 miliardi che diventano 315 deve essere messo a punto dall’Esecutivo comunitario a metà gennaio e vagliato dal Consiglio europeo a metà febbraio; e quanto ai margini di flessibilità, tante volte sbandierati, vanno ancora definiti e precisati.
Dopodiché, bisognerà mostrare che l’Italia, fanalino di coda dell’Unione per indicatori economici come la crescita e la competitività, ma leader per corruzione e opacità, saprà utilizzare bene i fondi del nuovo piano, quando non riesce a spendere quelli per la coesione.
Un’Europa ‘diversa’ ci serve di sicuro. Ma ci serve pure un’Italia diversa: meno parolaia e più concreta; meno formule e più fatti.