Quando, per esempio, il presidente del Consiglio Matteo Renzi, alla vigilia di un altro anno difficile per gli italiani, dice: “La parola del 2015 sarà ritmo”, scrivere che così ridicolizza se stesso e il governo che presiede non è un’ingiuria o un complotto dei soliti gufi. Un giornale serve a questo, anche se l’egopremier gradisce solo soffietti e battimani.

A quelli che ci dicono: “Altro che critica quella del Fatto contro Renzi, è stato un bombardamento incessante, pregiudiziale, irriguardoso fin dal suo ingresso a Palazzo Chigi”, diremo che sarà certamente vero se si tiene conto della delusione provata nell’inevitabile confronto tra il primo e il secondo Matteo. Nell’aver visto, cioè, un giovane uomo all’apparenza simpatico, brillante, pieno di energia positiva e animato dalla volontà di rottamare i vecchi e soffocanti poteri, trasformarsi in un baleno nel solito leader arrogante, ambiguo, pieno di sé, parolaio a livelli insopportabili e che cammina a braccetto con quel vecchiume che avrebbe dovuto spazzare via (parliamo di Berlusconi, ma anche dei tanti cacicchi pd che ha accolto sul suo carro pur di annettersi il partito).   

Però abbiamo anche saputo dirlo “bravo Renzi”: non troppe volte, ma sempre volentieri. Abbiamo apprezzato il senso delle nuove norme anticorruzione, al punto di chiedere di vederle presto attuate per decreto, e non con un disegno di legge che, come tante riforme all’italiana, finirebbe dimenticato nel cassetto. Abbiamo riconosciuto il coraggio di nominare al vertice del carrozzone Inps un economista autorevole e non renziano come Tito Boeri. Abbiamo detto bene quando Renzi ha concordato con il M5S l’elezione di un giudice costituzionale e di un membro del Csm, superando così l’impasse parlamentare. E abbiamo riconosciuto la sua buona fede quando, dopo i nostri articoli, il premier ha rinunciato a un privilegio pensionistico. Abbiamo denunciato il sapore elettorale degli 80 euro convinti, a ragione, che non avrebbero giovato alla ripresa dei consumi. Ma quei soldi hanno comunque aiutato milioni di famiglie e ne abbiamo dato atto. L’amputazione dell’articolo 18 ci è parsa un’inutile e violenta ingiustizia, ma se per incanto le imprese tornassero ad assumere in misura consistente, saremmo pronti a riconoscere di aver sbagliato.

Infine, il Quirinale. Di fronte alla scelta di un nome prestigioso che si ponesse come effettivo garante della Costituzione, condiviso non solo da B. (e qui già siamo alla contraddizione in termini) come potremmo non essere d’accordo? Un giornale serve a questo, a spiegare, a distinguere, a scegliere. In piena trasparenza e onestà. Qualche volta sbagliando e in altri casi con la presunzione di avere visto giusto prima degli altri. Come nel caso dell’immobilismo politico imposto ai Cinque Stelle da Grillo&Casaleggio che senza una pronta sterzata rischia di assicurare all’unica opposizione credibile un grande avvenire dietro le spalle. Ricordate? Mentre le ovazioni si sprecavano, subito denunciammo in solitudine il pasticcio della rielezione di Giorgio Napolitano. Che, infatti, un anno e mezzo dopo si appresta a scendere dal Colle lasciando un quadro politico ancora più frammentato e ingovernabile.

Ma un giornale può servire anche da allarme sociale. È accaduto nei giorni scorsi quando scrivemmo delle migliaia di esseri umani, a Roma, senza un riparo, abbandonati al gelo. Il Comune qualcosa fece, ma non abbastanza per salvare Gregorio, un polacco di quarant’anni che ieri non si è risvegliato. Non abbiamo gridato abbastanza. Nell’anno che viene lo faremo ancora di più.

Un sereno 2015 a tutti.

Il Fatto Quotidiano, 31 dicembre 2014

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