Sul tema della neutralità della Rete è stato scritto parecchio. Soprattutto nei mesi scorsi, quando il governo italiano ha cercato sciaguratamente di annacquarne la previsione in sede Ue. L’importanza del principio, almeno tra chi ha a cuore un’Internet aperta e plurale, non si mette nemmeno in discussione. Riassumo brevemente il concetto di neutralità della rete, usando le parole utilizzate nella bozza di “Dichiarazione dei diritti in Internet” che è allo studio presso la Camera dei Deputati:
“Ogni persona ha il diritto che i dati che trasmette e riceve in Internet non subiscano discriminazioni, restrizioni o interferenze in relazione al mittente, ricevente, tipo o contenuto dei dati, dispositivo utilizzato, applicazioni o, in generale, legittime scelte delle persone. La neutralità della Rete, fissa e mobile, e il diritto di accesso sono condizioni necessarie per l’effettività dei diritti fondamentali della persona. Garantiscono il mantenimento della capacità generativa di Internet anche in riferimento alla produzione di innovazione. Assicurano ai messaggi e alle loro applicazioni di viaggiare online senza discriminazioni per i loro contenuti e per le loro funzioni”.
Il che significa, in pratica, che i provider devono trattare tutti i dati allo stesso modo: i contenuti del piccolo sito di un’associazione di quartiere devono avere lo stesso “peso” di quello del grande fornitore di servizi. In particolare, i provider non possono creare “corsie preferenziali” a pagamento per chi se le può permettere, come è stato ipotizzato sia negli Usa (dove sembra che l’idea sia stata accantonata) sia in Europa, dove il governo Renzi ha recentemente provato a fare un regalo alle società di telecomunicazioni “aprendo” a un superamento della Net Neutrality per consentire alle aziende del settore di monetizzare ulteriormente la banda.
Le cose, però, non sono così semplici. Anche vietando la possibilità di offrire sul mercato maggiore velocità in cambio di denaro sonante, i rischi che la neutralità della Rete sia violata rimangono. In merito mi ha dato da pensare un articolo di Susan Crawford comparso sul web un paio di mesi fa. La Crawford è una paladina della Net Neutrality e, in questo suo intervento, punta i riflettori su un caso specifico: quello di Netflix. Netflix è una piattaforma di video streaming che, negli USA e in altre parti di Europa (in Italia, chissà come mai, non opera ancora) ha conquistato un pubblico vastissimo. La sua crescita è stata vissuta con terrore dai concorrenti, che negli USA hanno spesso il doppio ruolo di provider e fornitori di contenuti.
Semplificando il lungo articolo di Susan Crawford, si può dire che in un periodo a cavallo tra il 2013 e il 2014, Netflix ha subito una sorta di “sabotaggio soft” da parte dei provider americani che vestivano il ruolo (diretto o indiretto) di suoi concorrenti. Nulla di eclatante, almeno dal punto di vista degli atti pratici. Ed è bene chiarirlo, nulla che possa essere considerato illegale o sanzionabile. I fornitori di accesso si sono limitati ad allentare quella forma di collaborazioni tra network che permette a Internet di funzionare in maniera ottimale. Si tratta di mille piccoli interventi che, di solito, sono concordati tra i tecnici e richiedono spese modeste, anche solo qualche centinaio di dollari, magari per aggiornare l’hardware di un nodo di scambio o reimpostare il collegamento tra due network per garantire il corretto transito del traffico.
Fino a oggi, questa attività di costante messa a punto delle infrastrutture è stata fatta in maniera spontanea e quasi naturale. Tutti avevano convenienza a soddisfare le esigenze degli utenti, senza che a nessuno passasse nemmeno per la testa l’idea di discriminare questo o quel network. Le cose, però stanno cambiando e l’ipotesi che un provider utilizzi una sorta di “maliziosa pigrizia” per penalizzare un concorrente diventa sempre più concreta.
Per garantire la Net Neutrality, quindi, bisognerebbe prevedere una sorta di dovere di collaborazione tra i network che gestiscono il traffico dei dati. Ma come? La previsione di una authority ad hoc potrebbe essere una soluzione, ma il carattere sovranazionale di Internet e i rischi legati alle forme di controllo governative (o para-governative) sono troppo alti per pensare di mettere in mano a qualcuno il timone dell’intero sistema. Affidarsi alla semplice buona volontà degli operatori, d’altra parte, sarebbe ridicolo. Una via di mezzo potrebbe essere rappresentata da un sistema di autoregolamentazione, con le prevedibili difficoltà in tema delle modalità per l’accertamento delle infrazioni e l’inflizione delle sanzioni. Insomma: la questione è spinosa e la soluzione non è certo dietro l’angolo. Una soluzione, però, va trovata. E va trovata presto.