Viene definita barriera architettonica qualunque elemento fisico o senso-percettivo che impedisca, limiti o renda difficoltosi gli spostamenti o la fruizione di servizi, soprattutto per le persone con limitata capacità motoria o sensoriale.

Una scala, un sopralzo, un attraversamento, un marciapiede, una porta. Sono moltissimi gli ostacoli che possono rendere impossibile o estremamente difficoltosi l’accesso ad edifici e la mobilità di disabili, anziani, bambini, genitori e nonni con il passeggino, donne in dolce attesa.

Sit-in "Il welfare non è un lusso, contro i tagli alle politiche sociali"Esiste vasta legislazione in materia, esistono già norme e strumenti di pianificazione per abbattere tutte le barriere esistenti e in quasi tutte le Regioni è obbligatoria la destinazione di una quota degli oneri di urbanizzazione che i comuni incassano per rimuovere le stesse barriere (e con tutto il cemento vomitato negli ultimi trent’anni e i miliardi di oneri incassati dovremmo essere al livello dei paese scandinavi).

Però, purtroppo, le priorità in Italia sono sempre altre e la minoranza di persone che patisce la propria condizione di svantaggio, permanente o temporaneo, si vede sempre sorpassata nel riconoscimento del proprio diritto da esigenze definite superiori (da altri).

E pensare che se l’intero paese affrontasse questo problema “di petto”, stanziando le risorse necessarie e sbloccando molti dei limiti (come il patto di stabilità) che impediscono ai comuni di realizzare piccole opere sul territorio, ne trarrebbe beneficio l’intero comparto dell’edilizia oggi in crisi. Ma occorre una cosciente volontà politica. Quella che porta a scegliere di realizzare l’adeguamento dell’ingresso di una scuola al posto dell’ennesima rotonda con monumento arboreo o scultoreo vicino al centro commerciale. Una volontà che nascerebbe solo se i decisori pubblici si mettessero letteralmente nei panni di una persona costretta su una carrozzina, di un cieco o di un anziano, e si facessero un conseguente esame di coscienza.

Ai sindaci basterebbe poco. Girare la propria città nelle condizioni di chi ha difficoltà deambulatorie, di chi è non vedente, sordo, oppure semplicemente mamma di due gemelli.

L’impatto con la dura realtà sarebbe immediato e molto più comprensibile di mille relazioni tecniche.

Percorrendo in sedia a rotelle lo stesso tragitto casa-municipio che si compie tutte le mattine fischiettando, ci si renderebbe conto di come sia difficile superare un gradino, scendere da un marciapiede, affrontare la difficoltà una breve salita o la pericolosità di una rampa in discesa con pendenza superiore all’8%.

Andando in posta con gli occhi bendati o con gli occhiali che simulano l’ipovisione si capirebbe quanto siano importanti i segnali acustici, la presenza di corrimano e l’assenza di piccoli dislivelli sulla strada. Una volta affrontato questo “safari” a caccia delle barriere architettoniche della città sarà poi sufficiente rileggere l’art. 3 della Costituzione per ridefinire il “giusto” Piano delle Opere Pubbliche: “(…) E’ compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese.” Sembra scritto apposta per abbatterle tutte e subito queste barriere.

Quindi cosa stiamo aspettando? Serve forse un diktat della Trojka?

Il Fatto Quotidiano, 29 dicembre 2014

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