Il 2015 si è aperto con alcuni grandi titoli e nomi illustri, ma dal ritorno di Clint Eastwood al biopic su Alan Turing, il padre del computer, a emergere dal cartellone di capodanno per l’assoluta novità è proprio Tim Burton. Stavolta originale anche rispetto ai suoi capolavori
Nella nuova biografia burtoniana Big Eyes c’è lo zampino degli stessi sceneggiatori di Ed Wood, Scott Alexander e Larry Karaszewski (gli stessi dei biopic ancor più borderline Man on the Moon e Larry Flynt – Oltre lo scandalo). La storia di Margaret Keane, la ghostpainter dei bimbi dagli occhi grandi, era sconosciuta ai più, e i suoi dipinti considerati dalla critica dell’epoca una non-arte da supermercato. Tratto che Tim Burton sbeffeggia proprio nella sequenza più onirica dove Amy Adams si aggira in un supermarket schivando sguardi ‘giganti’ per imbattersi poi in una piramide espositiva di stampe Keane in varie misure e offerte da volantino, diremmo oggi. Ma il tocco profondo di Burton sta nello sfondo scenico: gli ordinati scaffali di fagioli Campbell, gli stessi che pochi anni dopo i fatti raccontati nel film diventeranno il feticcio pop di Andy Warhol.
Finora la nuova opera del regista di sogni, incubi, favole e cavalieri senza testa è stata letta come una sorta di pausa di riflessione artistica su sé stesso del regista. Niente mondi surreali, personaggi da circo, effetti visivi o costruzioni poetiche. Qui c’è un mitomane che con un inanellamento d’inganni riesce a sposare una gentil pittrice facendo delle sue tele merce per arricchirsi, ma autoproclamandosene l’autore. Praticamente un precursore del Pop col vizietto della truffa. E quel vizio della menzogna lo indossa il metodico istrione Christoph Waltz. Una garanzia.
Il film è ben congegnato, lineare, sobrio ed elegante nello sguardo dalla macchina da presa e non visionario come i classici burtoniani, d’accordo. Visivamente accattivante con la sua fotografia morbida quasi al pastello e con il fedele Danny Elfman a dare il la e non solo per i commenti musicali. Ma ci sono quei guizzi di bizzarria dell’attore viennese che sembra vengano dalla volontà precisa del regista di racchiudere in lui tutto il Burton/mondo. Così a volte fa immaginare che sul set di scenografie anni cinquanta il regista abbia sussurrato al due volte Premio Oscar: “Christoph, pensaci tu. Crea il mio mondo!” E lui parte con un carattere che da dinoccolato viveur trascina la Principessa pittrice nella gaudente Casa di Marzapane, rivelandosi gradualmente la Strega più cinica e malevola che si possa immaginare. E la sua performance diventa straripante. Ecco il paradosso che avvicina questo nuovo lavoro alle veritigini tra dolci ninnoli e cupi alberi ricurvi che hanno costruito negli anni l’immaginario legato alla filmografia di Tim Burton.
Qual è la donzella pura e imprigionata più moderna che si possa immaginare se non una donna artista e divorziata? E in un’epoca, poi, dove i due aggettivi già singolarmente avrebbero distrutto la vita di una donna, per di più con una figlia al seguito? La Adams ne veste tutte le insicurezze, le paure e il coraggio crescente in una tavolozza interpretativa fatta di splendide minuzie. Il contrasto perfetto per l’aguzzino Waltz, colui che decostruisce l’epoca apparentemente placida e incoraggiante dei cinquanta con la mercificazione non più dell’arte, ma di due donne.
L’arte si plasma in linguaggio, il veicolo che Burton utilizza per la sua nuova favola, di certo la sua più sottile. Il tocco onirico, ma sempre materico, per l’occasione diventa velato in una vicenda già piuttosto incredibile di per sé. La storia vera di un’artista succube che sboccia in tenacia era la storia perfetta per il cineasta che nei dieci anni di gestazione della sceneggiatura ne è diventato dapprima produttore e poi regista, grazie alla richiesta di Waltz davanti al copione.
Insomma, il più edulcorato o il più spiazzante dei Burton di sempre? Potrebbe essere ‘un biopic come tanti’, perché no? O percorrendolo come un viaggio nello spazio segreto nascosto sotto quel luna-park che è il suo cinema onirico e fantastico, da qui percepito solo come ovattato, il risultato potrebbe essere quello di trovarci lo stesso sentire che fa stupire e innamorare il suo pubblico da tre decenni. Il giudizio ai fan.
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