“I riflettori si accendono il 6 aprile di ogni anno, poi si spengono. Ma L’Aquila resta”. A parlare è Dorian Bardhi, studente di medicina fuori sede che da Pescara un anno dopo il 6 aprile 2009 ha deciso di iscriversi all’università de L’Aquila per “motivi puramente economici vista l’esenzione dalle tasse. Da studente posso dire che questa non è una città universitaria, non ho avuto modo di viverla prima del sisma quindi non posso fare un paragone, ma ad oggi non mi sento come se vivessi in una città a misura di studente. Certo, a livello didattico qualche miglioramento è stato fatto e credo più per un bisogno di ritorno alla normalità: ad esempio è stato reintrodotto il numero chiuso in alcune facoltà, non tanto per limitare le possibilità di accesso, ma per indicare il superamento della fase di emergenza. Quella fase è effettivamente passata, ma 5 anni fa è morta una città e per farla rivivere non bastano 5 anni”.
A poter fare un paragone è, invece, Marco Magliozzi che 5 anni fa era uno studente di psicologia e ora lavora a L’Aquila come psicologo: “L’università de L’Aquila prima del terremoto era una delle università migliori d’Italia, molto ben organizzata, molte facoltà erano al centro storico mentre quelle medico-scientifiche vicino l’ospedale e ingegneria era un altro polo a sé stante. Dopo il terremoto l’università non ha perso solo edifici ma anche finanziamenti: un po’ perché sono calati gli iscritti e sono state eliminate le tasse universitarie, ma soprattutto a causa dei tagli, ad esempio la facoltà di psicologia prima del terremoto offriva cinque percorsi di laurea specialistica, mentre ora ne sono rimasti due”.
Poi si spengono i riflettori. Ma L’Aquila resta.
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