Restare o non restare in Italia? Questo è il problema. Finiscono le feste e l’area “partenze” dell’aeroporto di Genova si trasforma nella sala della malinconia. Come nel capolavoro del pittore Umberto Boccioni, gli “Addii”, dove i colori sembrano sciogliersi in lacrime, il paesaggio scompare e vedi ritratto il dolore del distacco. All’aeroporto oggi incontri più amici che in una via del centro. Li guardi di spalle mentre superano il varco e speri che non si voltino per non dare appiglio alla nostalgia. Partono e ti sembra di vedere la tua città, la tua vita che perde schegge.
Una volta eravate tutti raccolti nell’aula del liceo, adesso siete sparsi per il mondo. Ecco Emilio che in Italia non riusciva ad arrivare a fine mese e a Londra è uno dei più noti autori televisivi inglesi. Ecco Giovanni che qui annaspava tra contratti a termine all’università e in America lavora nel più famoso ateneo del mondo. Poi Francesca che nella sua città non aveva ottenuto un colloquio per fare la cameriera in un grande ristorante dove venivano assunti figli e mogli dei maggiorenti del Pd. Oggi ha un contratto alla Sorbona. C’è Attilio che qui sognava di progettare città del futuro e oggi insegna architettura a Berkeley, mentre nella sua terra i progetti li firmano gli amici dei partiti. C’è Mario che, dopo l’ennesimo concorso con i vincitori sussurrati prima dell’apertura delle buste, cura i malati nei migliori ospedali di Berlino. Poi Marina che a Genova era disoccupata e a Washington trova terapie per salvare milioni di malati di malaria.
“Questo Paese è un disastro”, ti sei sentito ripetere una, dieci, cento volte. E dentro provavi un moto di stizza, quasi ti sembravano dei traditori: facile parlare male del tuo Paese e lasciartelo alle spalle. Ma poi pensi a cosa deve esserci davvero dietro a quelle parole: “È un modo per elaborare il lutto”, ti dice Francesca, “così ti convinci che il traditore non sei tu, ma la tua città”. Ed è vero, perché Emilio, Giovanni, Francesca, Mario avrebbero voluto restare. Che peso enorme devono sentire sulle spalle mentre vanno verso l’aereo! Ma la vita è una, e passa così presto. Non si può aspettare, basta un secondo e le speranze se non le afferri si fanno rimpianti.
I talenti vanno usati. Di quante occasioni si arricchiranno all’estero. Per sé, ma anche per noi. Che Rinascimento sarebbe davvero se un giorno potessero tornare. Per questo, pensi, tu rimani, per preparare il momento del ritorno. In fondo non ha ragione chi parte o chi resta. È giusto mettercela tutta, a migliaia di chilometri di distanza, ma uniti da una speranza. Come diceva la poesia di Catullo che si studiava stentatamente al liceo: strade diverse forse ci riporteranno tutti qui. Quanto era vero, non avremmo mai detto che ce ne saremmo accorti nella sala di un aeroporto.
il Fatto Quotidiano del lunedì, 5 gennaio 2015
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