L’impressione, benché sia quasi solo un augurio, è sempre la stessa: anno nuovo, vita nuova. Quale vita? E, nel caso italiano, quale Paese? Sappiamo che cosa va e che cosa non va osservando il tragico evento del traghetto Atlantic.
Ecco i fatti, che sappiamo, ma in parte, ma poco, con un ritardo che forse non è finito: un certo eroismo, molto bullismo, una parte ignota di eventi nel prima (come è cominciato?), mentre dura l’evento (perché l’emergenza continua?), nel dopo (chi ha salvato chi e quanti vivi, quanti morti, quanti dispersi, quanti imbarcati di propria iniziativa ci sono o c’erano?). Diremo che è un grave incidente che si sovrappone a un abituale disordine, grave per i danni che porta, anche quando, come il più delle volte, non c’è una emergenza? Situazione non bella ma aggravata da un dettaglio: notizie false. Non è un denuncia, è una constatazione.
Ci dice qualcosa del problema e ci aiuta a esprimere qualche desiderio per l’anno che viene. Cominciamo dalle notizie. Quelle che abbiamo ricevuto a poco a poco sul Norman Atlantic mentre l’evento era in corso hanno subìto, come si vede riguardando le sequenze sul telefono cellulare, tre distorsioni. Tutte le informazioni di base (quanti passeggeri, quanti italiani, quante persone messe in salvo, quanti bambini, quanti feriti, quante vittime) sono risultate sempre inesatte e senza fonte attendibile di riferimento. Il problema non era aggiornare, il problema era sapere, e non abbiamo quasi mai saputo ciò che accadeva. Poi è subentrata una euforica celebrazione, data anche come notizia dal presidente del Consiglio in persona, nel mezzo di un evento tragico dato per finito e invece in pieno svolgimento, con una attribuzione di merito (la stentorea lode al comandante restato doverosamente sulla nave) che si spiegava solo in relazione alla triste vicenda Schettino e che non aveva niente a che fare con la comunicazione di questo evento, apprezzabile perché doveroso. Seguiva altra euforica celebrazione di soccorsi, servita a coprire ritardi, errori, omissioni, narrati insieme agli episodi di rischio e di eroismo, sperando che questi ultimi cancellassero gli altri.
Dunque il Norman Atlantic (di cui, mentre scrivo, si ignora ancora il vero numero dei passeggeri e delle vittime) è diventato un buon modello della vita italiana: brave persone legate al proprio dovere o a un comportamento umano e civile, hanno dovuto mischiarsi con le orde del si salvi chi può (a meno che qualcuno non avesse qualcosa di peggio in mente) e a “irregolari” (non sappiamo quanti) stipati sulla nave. Ottimo pretesto comunque (barbari, estranei) per spiegare il disordine. Notare che tutte le autorevoli affermazioni dedicate dal premier al tragico evento hanno costantemente schivato due temi essenziali: un traghetto così passa ogni giorno. Siamo sicuri che quell’incendio, grave e isolato, sia un fortuito incidente? E poi: il grave e pericoloso disordine che ha segnato tutte le sequenze e messo in pericolo anche i soccorritori, è stata un’inevitabile conseguenza dell’emergenza (che sarebbe stata molto più grave di quanto ci viene detto) oppure è ciò che accade fatalmente in Italia se c’è un disastro?
A parte la magistratura, che dovrà accertare responsabilità, manca l’annuncio di un inchiesta di governo per riconoscere, con competenza e subito, dove e perché e a causa di chi, o di che cosa, un simile disordine e un simile pericolo hanno segnato un pubblico evento quotidiano. Ma se il Norman Atlantic è una vicenda esemplare, e non esaltante, del comportamento e funzionamento della Repubblica in condizioni difficoltà, allora è un buon punto di partenza per dire che cosa ci manca per essere un po’ più fiduciosi nelle nostre istituzioni, di cui ci raccontano meraviglie, per poi abbandonarci in mare (la nave San Giorgio, orgoglio della marina italiana, è arrivata sul luogo trenta ore dopo l’allarme). Un inventario è facile e non lieto. Manca la fiducia. Hai fatto il tuo lavoro, il tuo dovere, hai pagato le tue tasse, rispetti leggi e regolamenti, compresi nuovi commi e nuove decisioni improvvisate. I cittadini restano soli. La vera protesta, gridata in piazza o tenuta dentro come un incubo, non sono i mutamenti stravaganti e ingiusti con cui ti spostano continuamente il percorso. La vera protesta è contro lo Stato che non c’è, che se ne va, che sgombera. E quando torna, o tenta di ritornare, è un circo impazzito. I fatti sono sempre nascosti o imprecisi, imparziali o detti da qualcuno come uno sfogo e non sai mai se credergli o se si tratta di una vendetta contro l’abbandono. Qualcuno dirige. Ma passa il tempo a lodare se stesso. E ti fornisce subito un elenco di interventi, di iniziative, di idee che hanno cambiato la tua vita. Ma la tua vita non è cambiata. Se mai è peggiorata, come ti dicono cifre e statistiche e l’esperienza della giornata.
La desolazione è grande perché non riesci a vedere se e in che punto lo stato di confusione in cui ti hanno costretto a vivere coincida con i discorsi, i dibattiti e persino gli accesi scontri verbali che si svolgono intorno a te. Fuori dalla finzione televisiva o dalla notizia drammatica che dura un giorno, chi dovrebbero occuparsi di te ha altro da fare. Intanto la vita detta sociale, pubblica o politica, prosegue in disordine. Come ci insegna l’avventura, fra poco dimenticata, del Norman Atlantic, il disordine non ha né colpevoli né vittime, è un modo di vivere, una forma di aggregazione delle cose e persone in una certa fase di civiltà. Certo è l’Italia di oggi. Semmai qualche malintenzionato la usa come cortina fumogena per profitto, vantaggio o comportamento illecito. Tutto ciò riesce meglio che in un mondo di regole limpide e osservate. Ma se, esasperato, ti colleghi con i media, trovi solo celebrazione. In attesa di una breve e severa denuncia del prossimo Norman Atlantic, dei suoi errori, del suo terrore, dei suoi morti.
Il Fatto Quotidiano, 4 gennaio 2015
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