Stanno finendo le vacanze di Natale. Quelle dei bambini, delle scuole, che per chi come me vive lontano dai propri parenti, spesso coincidono anche con le ferie. Così è stato anche quest’anno. Infatti sono nella mia Ancona, la terra mia. Per questo il 22 dicembre non ero al Forum di Assago per vedermi il megaevento del concerto di Nero a metà, il tour rievocativo di Pino Daniele che, a distanza di oltre trent’anni dall’uscita del suo capolavoro, del nostro capolavoro, pietra miliare della musica italiana, ha riunito intorno a sé i musicisti storici del suo combo per riportare sul palco una sorta di miracolo. Un miracolo, sì. Ci pensavo l’altro giorno, mentre me ne tornavo, gli occhi gonfi di lacrime da Loreto. Ero andato a salutare un mio amico fraterno. Un addio, lui lì appeso a un filo che, in cuor mio, vista la sofferenza che lo attanaglia, gli auguro non sia un filo troppo spesso. Nell’autoradio andava un po’ di musica italiana d’epoca, perché il cuore, gonfio di dolore, aveva bisogno di qualcosa di balsamico che portasse sollievo. Se dicessi che c’era Pino Daniele, oggi, mentierei, e siccome non mi va di mentire, non lo dirò. C’era Dune mosse di Zucchero, nella versione con Miles Davis. È lì che ho pensato a Pino. Ho pensato: sono pochi, ormai, in Italia, quelli ancora in vita che hanno segnato il passo, inventato un linguaggio, magari anche solo contaminando le tradizioni nostre con le tradizioni altrui, la nostra lingua con il vernacolo, con l’inglese. Tutto è scaturito da un verso “don’t cry però”, che mi ha ovviamente fatto venire in mente l’originale, Pino Daniele, appunto. E pensando alle sue canzoni, quelle che tanto ho amato, coi vinili, sì, perché allora c’erano i vinili, fisicamente consumati, a furia di passarli sotto la puntina, ho ripensato di nuovo a Bruno, il mio amico che ero appena andato a salutare, e la commozione non si è più fermata.
Bruno è ancora lì, appeso a quel filo, Pino Daniele, invece, se n’è andato nella notte. Parafrasando il suo ultimo tweet, che accompagnava la foto di una strada solitaria, in bianco e nero, è tornato a casa, back home, proprio in quel suo modo spurio di parlare, di regalarci il blues. Perché se il blues è entrato nelle vite di molti italiani, diciamolo oggi che ci si può lasciare a certe malinconie anche rischiando di tracimare nella retorica, è grazie a lui, che sul volgere degli anni Settanta, in una Napoli straripante di vita, si è preso agio di reinvetare la tradizione napoletana mescolandola a quella del Delta del Mississippi, accompagnato da musicisti come non se ne ricordavano in Italia, complice una voce unica, con quel falsetto sornione che, come la voce di un Dalla o di un Battisti, difficilmente troverà un epigono in futuro.
Dove sto andando a parare? Non lo so. E francamente non mi interessa. Questo è un saluto, e come tutti i saluti, quelli definitivi, gli occhi sono velati, i contorni sfocati, le parole prive di un vero senso.
Questo è un brutto periodo per la nostra musica. Se ne stanno andando nomi che, non voglio fare il passatista, non mi sembra abbiano corrispettivi nelle nuove generazioni.
Restano le canzoni, si dice in certi casi, e sicuramente è vero. Così come degli amici veri, quelli che hanno condiviso con noi parti importanti della nostra vita resta il ricordo. Ma le canzoni, come il ricordo, a volte non bastano. Don’t cry, però.
→ Sostieni l’informazione libera: Abbonati o rinnova il tuo abbonamento al Fatto Quotidiano