È strano il web. E sono strani i social. E quelle distanze che si annullano mentre, però, i dubbi si amplificano, si infittiscono, acquistano spessore perché li vorremmo realtà. È strano. È maledetto e benedetto perché fa volare le notizie veloci: a volte prima che siano persino vere e allora diventano “bufale”. Eppure, quando un mio amico dall’Italia, dove era da poco passata l’una di notte, mi ha mandato un messaggio per dirmi che Pino Daniele era morto di infarto, un brivido mi ha attraversato la schiena e i dubbi non hanno fatto nemmeno atto di presenza. Proprio come quella volta, con Massimo Troisi. Solo che allora ce lo disse il Tg, con un’edizione straordinaria, di quelle che la verità te la spalmano addosso come cera bollente che ti si attacca prima ancora che tu possa togliertela senza farti male.
Questa volta ero io e il mio computer e la pioggia improvvisa di New York che ha cominciato a battere sui vetri e una notizia così grande da sfuggirmi dalle mani, come fosse un granello di sabbia. “Pino Daniele è morto”. Come avrebbe fatto chiunque ho cercato riscontro online ma c’era silenzio. L’Italia dormiva, giustamente. Allora ho avvertito una collega, perché provasse ad avere la conferma che avessi preso una cantonata. Intanto il tempo passava e mille immagini di Napoli hanno attraversato la mia mente, “mille culur” come avrebbe detto Pino. Napoli, che avrei voluto abbracciare stretta stretta, perché Pino è Pino: è come Maradona, come il pino di Posillipo e come il Cristo Velato. Mica può morire così. Così come Massimo.
E allora ho pensato che fosse “giusto” dirlo. Giusto informare. Come se facendolo io, potesse fare meno male. Come se un mio “cinguettio”, potesse essere meno dolente di quello di chissà chi altro. E me ne sono presa la responsabilità, non avendo conferme ufficiali. Contemporaneamente si diffondeva il messaggio lasciato da Eros Ramazzotti su Instagram qualche minuto prima, altra dolorosa conferma. Ed è stato allora che il web mi ha travolto quasi inaspettatamente: tutti a chiedermi, a scrivermi, un coro di “no” e “non è possibile”. Avrei dovuto prevederlo. Eppure questo è l’aspetto più singolare di questi strumenti “diabolici” che sono i social: mentre scrivi, nella tua solitudine, smarrisci il senso che quelle tue parole possano essere lette da tutti, rimbalzare da un lato all’altro dell’oceano. Ed allora è iniziata una sorta di “veglia” con sempre più gente a sperare, a mendicare una smentita ed io stessa ad augurarmi di essere ricoperta e sotterrata da una valanga di pernacchie.
Invece, smentite non ne sono arrivate. Pino è andato, perché “o’ saje comme fa o’ core”. Il nostro, di cuore, oggi è un pezzo blues che ascolti mentre ti passano davanti le immagini di Napoli, i suoi vicoli, il suo ventre, il suo mare, i suoi dolori, i suoi odori, le sue carte sporche e quella bellezza che sa incatenare; e poco importa che all’improvviso al posto del Vesuvio ci sia lo skyline di New York, o una spiaggia di Rio, o i colori intensi dell’Africa; poco importa perché “a nuje ce piac o blues”. Buon viaggio Pino.
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