Se ne La Grande Bellezza, il regista Paolo Sorrentino, dopo molti giri di telecamera, riusciva a dare un ventaglio di possibilità su che cosa potesse rappresentare la bellezza, o la sua più grande forma (l’esistenza, la gioventù, la trascendenza, il progresso o il passato umano, l’amore, il denaro, la felicità), qui siamo nella fase precedente, nell’anticamera, in quel passo prima dello spalancarsi della porta, prima dell’apertura della scatola del regalo, prima della botola o prima del lancio nel vuoto. Alla ricerca della bellezza perduta, poteva essere. Invece è Finding Beauty, la continua analisi, l’andare per tentativi, l’errore e l’incamminarsi, il frugare senza sosta negli angoli dei momenti. Siamo una sorta di Filippide in continua corsa, e rincorsa, fino all’arresto cardiaco finale e fatale.

I tipi de La Società dello Spettacolo, che sgomitano tra Spello e Foligno, incastrati nelle contraddizioni tra l’enigma-ematoma della chiesa di San Paolo Apostolo progettata da Massimiliano Fuksas e la mostra permanente di Gino De Dominicis con l’opera d’arte La Calamita Cosmica (lo scheletro gigantesco con il naso dantesco e pinocchiesco) all’interno della chiesa dell’Annunziata, hanno pasta da plasmare, materia da decodificare. Proprio il loro nome lo devono al saggio illuminante omonimo del filosofo francese Guy Debord. Hanno cervello ed azione, movimenti e lampi, idee e concretezza. Questo il loro sesto spettacolo, dal 2007 ad oggi, partendo proprio da La società dello spettacolo al quale sono seguiti Delitto perfetto tratto dal sociologo Jean Baudrillard, Carne dal fenomenologo Maurice Merleau Ponty, Neobarocco dal semiologo Omar Calabrese ed Infami (in scena il 22 gennaio a Gubbio, il 22 febbraio a Narni ed il 5 marzo a Gualdo Tadino) che prende spunto dal geologo Alfonso Russi impegnato nella lotta contro l’ndrangheta.

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Qui l’impasto corposo e alchemico prende spunto da Kierkegaard, passando per Le foglie d’erba di Walt Whitman (“Mi contraddico forse? Ebbene mi contraddico, sono vasto, contengo moltitudini”). A questo aggiungiamo Opinioni di un clown di Heinrich Boll fino alla citazione, inserita nel testo, pronunciata da Alberto Moravia ai funerali dell’amico P.P.P., sui poeti ammazzati e sul fatto che ne nascano due o tre ogni secolo. Il clown è il poeta dei bassifondi, dei marciapiedi, degli ultimi, è umile e muto, soffre il dolore con il sorriso finto (mai falso, però) stampato sulla pelle come tatuaggio dell’anima. Il clown (da non confondere con il pagliaccio che fa ridere di sé per rafforzare gli altri, mentre il clown fa sorridere amaro dei nostri stessi limiti, con rappresentatività, solidarietà e vicinanza) non smette di cadere e non smette mai di rialzarsi, il clown è Don Chisciotte, sembra un matto, un perdigiorno solo perché guarda oltre il terreno e la materialità, il clown mette in scena le nostre ossessioni, frustrazioni, piccoli tic quotidiani, soprattutto i disagi, il nostro essere o sentirci inadeguati o inadatti, sbagliati, fuori posto, le piccole sconfitte, le grandi batoste, le debacle malinconiche. Il pagliaccio invece è sopra le righe, è forzato, smodato, ridicolo, è “quello che prende gli schiaffi”.

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E’ dislessico e balbuziente, ma anche logorroico e trasognante il nostro (niente a che vedere con il clown perfido di IT di Stephen King) interpretato dal consistente Michelangelo Bellani (sua anche la drammaturgia) in mezzo ad oggetti parimenti rossi, come la fantasia, l’immaginazione, la fanciullezza dei colori accesi e luminosi, e grigi, l’età adulta, la serietà, la compostezza, la noia, confezionati dalla regia di C.L. Grugher con un impianto luci (Stefano Romagnoli light designer) semplice quanto efficace con tre lampade a goccia, a caduta, in alternanza ad accendersi e spegnersi come le fasi della vita, le idee che frullano, i possibili mondi infiniti che ti possono cogliere e tangere. “Io oscillo, non posso seguire la retta via”, come manifesto d’intenti di quella straordinaria libertà che diventa limite, se non capita, che diventa iperbole e volo, se accolta: “La mia indipendenza, che è la mia forza, implica la solitudine, che è la mia debolezza”, ci chiariva le idee Pasolini.

“Sei tu forse un uom? Tu se’ Pagliaccio! Vesti la giubba, e la faccia infarina. La gente paga, e rider vuole qua. …..Tramuta in lazzi lo spasmo ed il pianto in una smorfia il singhiozzo e ‘l dolor Ah, ridi, Pagliaccio, sul tuo amore infranto! Ridi del duol, che t’avvelena il cor!” (Vesti la giubba, Pagliacci, Leoncavallo). E se questo nostro antieroe contemporaneo, (quando si toglie il cappello diventa serio, in una sorta di traslazione-contrappasso di Sansone) che come fantasma dell’Opera vive tra le tavole del palcoscenico autoescluso ed autoemarginato dal contesto sociale, si scontra con il pensiero comune, qui una ragazza dei nostri giorni (Giulia Battisti presente), “La malattia di questa società è che ci si abbronza in una stanza”, concreta ma senza molte vie d’uscita, stretta nell’immobilismo e nel pessimismo: “Tu pensi che basti parlare di felicità per provarla”. Il nostro è un moderno partigiano che resiste (la canzone finale è Guardali negli occhi cantata da Giovanni Lindo Ferretti, voce utilizzata come chiusura di ogni piece de La società dello Spettacolo) oltre ogni logica possibile, oltre “ogni ragionevole sospetto”.

“Lentamente muore chi diventa schiavo dell’abitudine, (….) chi passa i giorni a lamentarsi della propria sfortuna”. (Matha Medeiros). Se il mondo non salverà la bellezza, la bellezza non riuscirà a salvare il mondo.

Teatro Subasio, Spello

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