Le celebrazioni sono aperte dalla Cineteca di Milano che dal 7 al 23 gennaio 2015 riporta su grande schermo tredici titoli. A tutt’oggi non sono che una decina le retrospettive programmate: tutte tappe americane, con un’incursione inglese e nessuna traccia europea, ad eccezione della Cineteca di Bologna
A cento anni dalla nascita (6 maggio 1915) e a trenta dalla morte (10 ottobre 1985) rivive il mito di Orson Welles. Probabilmente il più geniale regista/autore/attore statunitense che ha elevato l’autonomia creativa (e produttiva) a dogma cinematografico assoluto, aprendo la strada a tutte le teorizzazioni sull’ “autore” che dai Cahiers in avanti avrebbero poi portato alle Nouvelle Vague di mezzo pianeta e alla New Hollywood anni settanta, amica intima dell’oramai obeso e stanco Welles di quegli anni.
Le celebrazioni sono aperte dalla Cineteca di Milano che dal 7 al 23 gennaio 2015 riporta su grande schermo tredici titoli di e con Orson Welles: da Quarto Potere a F for Fake, da L’Orgoglio degli Amberson a L’infernale Quinlan, passando per film soltanto interpretati dal ragazzino prodigio originario della fredda Kenosha (Wisconsin): Il terzo Uomo, Jane Eyre, e Cagliostro. A tutt’oggi non sono che una decina le retrospettive programmate in suo ricordo: tutte tappe americane, con un’incursione inglese e nessuna traccia francese e/o europea, ad eccezione della Cineteca di Bologna che sta preparando un ricco menù per la prossima edizione del Cinema Ritrovato 2015. La sostanziale diffidenza, e il concreto oblio che hanno sempre attorniato la carriera di Welles, lo accompagnano ancora ben oltre la morte.
Il novello Icaro che nel giro di un paio d’anni (1939-1941) pensò di conquistare Hollywood e stravolgere le regole del gioco, con il creatore del film a dettare legge su linguaggio, final cut e budget dell’opera, torna ciclicamente a bruciarsi e sciogliersi le ali. Quarto Potere, designato da Sight and Sound il miglior film della storia del cinema (su Imdb.com è 64esimo dopo Nuovo cinema Paradiso (sic!) – su rottentomatoes.com è secondo solo a Il mago di Oz, ndr) rappresenta, paradossalmente, folgorante apice e immediato declino di una carriera subito decollata e poi in perenne rampa di lancio per Orson l’ “unbankable” (l’inaffidabile).
Figlio di un ricco commerciante nel settore trasporti e di una concertista, Welles ha sempre ricordato ai suoi biografi di essere stato concepito zingaro “a Parigi o a Rio mentre i genitori compivano il giro del mondo”. Bimbo precoce: a 5 anni legge già Shakespeare, a 12 fuma i sigari del padre, studia Nietzsche e incontra Harry Houdini. Magia e teatro, piacere per la messa in scena magniloquente e sorprendente, per il trucco e il travestimento, tema centrale del suo cinema: il conflitto tra bene e male, dove spesso e volentieri, il primo è interpretato da goffi e impotenti protagonisti e il secondo si manifesta sardonico e vincente in storiche figure di malvagi destinati comunque a soccombere alla propria hybris.
Ma non c’è Welles cinematografico senza Welles teatrante e radiofonico: cruciale l’apprendistato prima sui palchi d’Irlanda poi nel teatro sociale della costa est immersa nel New Deal roosveltiano, fondamentale la fondazione del teatro Mercury sulla Broadway a metà anni trenta, e infine oltre ogni grazia di dio la sconvolgente e posticcia invasione dei marziani propugnata sulla radio Cbs il giorno di Halloween del 1938 con tanto di abitanti americani da ogni dove presi dal panico e corsi in strada. Da lì, l’abile manipolatore delle emozioni dello spettatore s’inventa Quarto Potere con i soldi della Rko, sul dispotico magnate della stampa William Randolph Hearst, inquadrando sé stesso e il set con ottiche deformanti e abbondante uso della profondità di campo. È una rivoluzione tecnico stilistica che lascerà il segno a livello mondiale. Il grandangolo da 18,5 mm verrà riutilizzato anche in tutti i suoi film più sentiti e personali, ma per Welles è già finita prima di iniziare.
Nei primi anni quaranta le grandi major gli troncano ogni autonomia e gli tagliano con violenza i film: 50 minuti per gli Amberson, ne La signora di Shanghai la Columbia mozza la lunga sequenza della sala degli specchi. Welles, commercialmente, ha già concluso qua. Eppure la leggenda continua: prima in Europa dove da attore interpreta un grande successo come Il terzo uomo (è il commerciante di penicillina avariata Henry Lime), la Palma d’Oro a Cannes per l’Otello (1952) poi il ritorno a Hollywood per L’infernale Quinlan (ancora tagliato dalla Universal e restaurato negli anni ’90 dal montatore Walter Murch) e di nuovo la navigazione a vista in Europa col Falstaff, Il processo, F for Fake.
Il sodale John Huston gli consegna l’Oscar alla carriera nel 1971 (ne aveva vinto uno nel ’42 per la sceneggiatura di Quarto Potere ndr), ma continua a fare giochi di prestigio, a bleffare, divertire e sorprendere (sua la voce narrante nei telefilm Magnum P.I. e Shogun), come nell’ultima intervista al Merv Griffin Show il giorno prima della sua morte. Così una volta salutato quel mondo che non l’ha mai del tutto voluto al banchetto delle celebrità, ma che la sua quota di popolarità se l’è costruita da leggenda da star dell’underground, Welles è risbucato al festival di Pordenone nel 2013 con il ritrovamento e la proiezione del ritenuto perduto Too Much Johnson (1938) e forse risbucherà come regia postuma de L’altra faccia del vento proprio nel maggio 2015, a cento anni dalla sua nascita, come alcuni siti di cinema declamano, nel film iniziato a girare negli anni settanta con Peter Bogdanovich e John Huston. Un altro scherzo di Orson Welles? Il mito sopravvive ancora una volta alla storia. Chapeau.