Ogni mercoledì dopo mezzogiorno a Parigi suonano le sirene. Sono prove di allerta per la Senna che potrebbe gonfiarsi, per terremoti che non si verificano mai, per incendi devastanti altrettanto improbabili, per altre imprecisate calamità. Il loro suono è lugubre. A occhi chiusi, sembra di essere precipitati nel 1940, aspettando gli Heinkel o gli Stuka o la Wermacht che nessun miracolo della Marna avrebbe potuto fermare.

Ieri hanno suonato e – come fossero tornati quei tempi di orrore e violenza – appena esaurito l’ultimo dei cinque fischi, da rue Nicolas Appert, una stretta parallela del più vasto Boulevard Richard Lenoir sono partiti i colpi delle armi automatiche che hanno sterminato la redazione del settimanale satirico Charlie Hebdo. Non erano machine pistol naziste, ma kalashnikov. Non erano divise feldgrau, ma tute nere di incappucciati, come se per le strade di Parigi fosse riapparsa per incanto la “cagoule”, il braccio armato dell’Action Française.

Il bersaglio grosso era comunque lo stesso: giornalisti, intellettuali, uomini liberi. Stephane Charbonnier, Jean Cabut, Bernard Verlac Tignous, Georges Wolinski non erano però disarmati. Imbracciavano da sempre la libertà di pensiero, non rispettavano convenzioni, ipocrisie, non obbedivano al conformismo, piuttosto lo stanavano e distruggevano con una battuta e un tratto di matita, detestavano l’ossequio religioso, politico, corporativo e i fanatismi di ogni genere perché essi stessi fanatici: la libertà non sarebbe mai stata un bene negoziabile. Charlie Hebdo era in stato d’assedio permanente perché metteva a nudo non solo i re, ma anche le divinità. Ci avevano provato la sinistra dei socialisti mitterandiani, la destra di Chirac e Sarkozy, la chiesa gallicana, quella romana, le comunità ebraiche, le diplomazie di mezzo mondo sbeffeggiato. In nome di Maometto e di Allah si è andati per le spicce ed è questa la differenza insanabile che dividerà un civile passato da un terribile futuro.

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