Ho incautamente buttato lì in redazione che ho conosciuto Wolinski. Quando otto teste si sono voltate verso di me con quel certo sguardo lì, ho capito che avevo fatto un passo falso. La richiesta è arrivata un nanosecondo dopo; anzi, mentre venivano pronunciate, automaledicendomi per non essermi nascosto la lingua dietro l’ugola, recitavo mentalmente le parole “Visto che tu” “Conosciuto” “Scrivi”. Non perché io non volessi scrivere di uno che è stato un mio maestro e ispiratore insieme al suo gigantesco amico Reiser e ad altri disegnatori francesi/americani/altro che fecero di me quello che sono. Ma perché data la dimensione artistica di Wolinski, non voglio fare la figura della mosca cocchiera, di quello che ci ha parlato per un paio d’ore e sfrutta l’occasione per mettersi in mostra.
Andò così infatti, conobbi questo poetico pacioccone francese anni fa in occasione di un paio di manifestazioni fumettare di cui non ricordo più le ragioni. Ci parlai per un paio d’ore, non di più. Ma visto che ormai m’hanno incastrato e hanno piantonato l’uscita finché non consegno questa memoria, va bene, vai con le rievocazioni. I primi ricordi di Wolinski per me si chiamano Oreste Del Buono (sempre sia lodato) e Linus. Dovete sapere che più o meno a metà del secolo scorso in Italia, il fumetto era considerato roba per bambini o al massimo per giuggioloni mai cresciuti (il che, per onestà intellettuale, non è del tutto inattendibile). Il fumetto cosiddetto d’autore, scritto bene e disegnato meglio, non era neanche immaginabile.
Poi arrivò Del Buono (sempre sia lodato) e sfornò questa rivista mensile che per la prima volta in Italia scodellava sotto gli occhi di noi giovani affamati le strisce e le pagine di gente come Schultz con Charlie Brown, Walt Kelly con Po-go, Al Capp con Li’l Abner, il nostro Manara con Lo Scimmiotto e questa manica di francesi grandiosi tra cui spiccavano l’efferato esilarante Reiser e lo sporcaccione raffinato Wolinski. Chi non ha rischiato la cecità con le tavole di Paulette che Wolinski realizzò in collaborazione con Pichard alzi la mano, anzi sarebbe stato meglio l’avesse alzata allora. Non starò qua a fare la lezioncina sulla carriera di Wolinski, Wikipedia ve la racconta molto più esaustivamente e autorevolmente di me.
Vi basti sapere che il suo lessico sintetico e potente, il suo segno di poche ma efficacissime linee, certe sue vignette scarne di orpelli grafici quanto dense di implicazioni culturali (che parolaccia), con cui fece incazzare politici, femministe e tediosi difensori del politically correct, scesero nella pancia del pischello coi disegnini nel cassetto che ero e non ne uscirono più. Preferisco quindi raccontare l’uomo che mi trovai davanti per un paio d’ore in tutto, sufficienti a non dimenticarlo più. Tralasciamo l’emozione reverenziale di imbattermi in uno dei miei miti, ognuno di voi si sarà imbattuto in uno dei suoi miti e sa di cosa parlo. Tanto l’emozione reverenziale finì presto, la stemperò lui con un par de risate e con la sua scollacciatissima allegria.
Sì perché la passera, intesa non come femmina di un animale con le piume, era protagonista rilevante non solo delle sue vignette, ma anche del suo interloquire. E io che di fronte a certi argomenti non arrossisco né mi tiro indietro, mi ritrovai prestissimo a sghignazzare insieme a un uomo che definire vitale è limitativo. Tra una cazzata e l’altra, in un misto penoso di italiano (il suo) e francese (il mio), ci scambiammo un tot di vignette zozze e, ma sì, un po’ maschiliste, il progressista corretto in me tentò di rompere i coglioni ma fu autozittito prontamente, quello di fronte che rideva e smatitava era Wolinski!
Era un tipo allegro, era un poeta, era uno che parlava e scriveva di sesso perché parlava e scriveva di vita, calda, gioiosa e pienamente vissuta. Era un uomo sorridente, lontano anni luce dalle cupezze che ce lo hanno portato via. Era Wolinski.