Media & Regime

Charlie Hebdo, non vedevo armi in redazione dagli anni 80. Eravamo a Catania con Pippo Fava

No, non “siano tutti Charlie”. Davanti al sangue in redazione, mi riemerge dentro l’istinto di chi la “guerra” l’ha vista da vicino. Ieri non ero a Parigi ma a Roma. Il suono che non dimentico e che ho sentito alcuni decenni fa non era quello di un kalashnikov ma quello più banale di una 7.65. Eravamo nella Sicilia degli oscurati anni Ottanta, in culo al mondo, eravamo a Catania e non a Parigi. Ma in gioco c’era sempre la stessa cosa: la libertà di pensare e di raccontare, per parole o per vignette. Una cosa sacra e non solo in Francia.

I fatti di Parigi mi hanno fatto riemergere suoni e sensazioni conosciuti; io ero nella redazione dei Siciliani quando ammazzarono Giuseppe Fava: quei killer erano armati di una banale 7.65 ma della medesima certezza “integralista” di fare giustizia per conto di chi comandava sulla coscienza collettiva dell’epoca e potendo contare sulla pavida paura di (quasi) tutti, soprattutto intellettuali e giornalisti.

Accade questo, al di là di tempi e luoghi, ogni volta che in gioco c’è uno scontro tra libertà e poteri totalitari. Parlare di mafia e fare inchiesta sulle cosche, allora, il 5 gennaio 1984 e in Sicilia, era un po’ come per Charb, Wolinsky o Cabu e Tignous, disegnare a Parigi vignette graffianti sull’Islam non moderato ma anche sull’integralismo cattolico e sulla arroganza di potenti senza controlli. Una “bestemmia” civile, visto che il lavoro di un intellettuale onesto, non ha importanza se parigino o di Palazzolo Acreide (priovincia di Siracusa), è simile. Sta tutto lì, bestemmie nel contesto di chi dice cose sagge e di salotto, nascondendo la cruda verità.

Certo che la “guerra” antimafia dell’intellettuale siciliano Giuseppe Fava (armato di lettera 22) e del suo giornale I Siciliani non hanno apparentemente nulla a che fare con le battaglie di un gruppo di raffinate matite parigine degli anni dieci del terzo millennio, ma lo scontro è lo stesso.

Anche allora la violenza era annunciata, minacce ne arrivavano intorno a quel giornale in culo al mondo ma il lavoro continuava. E anche allora il “contesto” del giornalismo bene educato e  “autorevole” invitava a “non esagerare”. Come ha fatto ieri il Financial Times (e come faceva Andreotti): “Vabbé, però quelli se la sono un po’ cercata… giornalisti estremisti che hanno esagerato e così hanno cercato la morte”. Stesse parole che usava, 31 anni fa, il quotidiano di periferia di Catania, La Sicilia, prima, durante e dopo l’assassinio del giornalista di turno, in quel caso Fava, oggi Charb e compagni.

Vignette ne pubblicavamo anche noi, su I Siciliani. Dissacranti per l’epoca. Tra noi c’era un ex direttore del settimanale satirico il Male e molti vignettisti oggi affermati sono cresciuti là dentro, alla scuola della dissacrazione di un potere pervasivo come quello della mafia politica-economica che ammazzava (già allora a colpi di kalashnikov) prefetti, poliziotti, magistrati, politici onesti, professori di università, preti, giornalisti (9 uccisi in Italia dalla mafia), passanti e perfino ragazzini.

E lo poteva fare perché contava sulla distrazione e sulla paura dei “colleghi” che non se la cercano mai. Perché educatamente non bestemmiano e voltano sempre le spalle ai fatti.

 

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