Dal 9 al 31 gennaio in Australia si disputa la sedicesima edizione della competizione che, dopo mille difficoltà, vede impegnata anche la nazionale araba
Dal 9 al 31 gennaio si disputa la sedicesima edizione della Coppa d’Asia. Per la prima volta in Australia (in cinque città: Sydney, Melbourne, Brisbane, Canberra e Newcastle) da quando la nazionale dei Socceroos nel 2006 ha abbandonato la federazione oceanica per aggregarsi alla più competitiva federazione asiatica. Per la prima volta con la partecipazione della nazionale di Palestina, qualificata grazie alla vittoria lo scorso maggio nella AFC Challenge Cup: coppa minore per paesi emergenti dove giocano quasi tutti under 23 e che regala però ai detentori un posto alla fase finale del campionato continentale. Uno a zero alla Filippine con gol di Ashraf Nu’man, nato 28 anni fa a Betlemme, e da quel 30 maggio 2014 diventato il profeta del calcio palestinese.
Attualmente al 113° posto nel ranking Fifa, la storia della nazionale della Palestina è tormentata quasi quanto quella del suo popolo. Riconosciuta solo nel 1998, è costretta per dieci anni giocare in territorio straniero, fino alla prima partita sul suolo patrio in amichevole con la Giordania a Gerusalemme. Mentre per la prima partita ufficiale, un match di qualificazione alle Olimpiadi 2012 contro la Tailandia, si è dovuto aspettare il 2011. Ultimamente la nazionale gioca per lo più in Egitto o in Qatar, mentre la federazione organizza due diversi campionati nazionali: uno a Gaza e l’altro in Cisgiordania. Allo stesso modo, il ct Saeb Jendeya è costretto a convocare per la maggior parte i figli della diaspora nati in giro per il mondo, dal Cile alla Svezia, non per scelta tecnica ma perché ai calciatori palestinesi è molto spesso impedito da Israele sia il viaggiare per i territori occupati sia, ovviamente, l’espatrio.
Nel 2006, dopo una vittoria con Taiwan e un pari con l’Iraq, la Palestina era addirittura in testa al girone di qualificazione ai Mondiali di Germania, ma Israele negò il permesso di viaggio a metà della squadra per la decisiva trasferta in Uzbekistan, persa 3 a 0. L’anno dopo, all’intera squadra fu proibito l’espatrio per le partite di qualificazione alla Coppa d’Asia 2007. Lo stesso accadde per una trasferta a Singapore durante le qualificazioni per i Mondiali del 2010. E non è finita qui. Nel 2006 il calciatore Tariq al Quto fu ucciso dall’esercito israeliano e nel 2010 furono ben tre i nazionali (Ayman Alkurd, Shadi Sbakhe e Wajeh Moshtahe) uccisi durante l’operazione Piombo Fuso. Mentre l’anno dopo morì in carcere, senza processo, il calciatore del Betlemme Zakreea Isaa.
Il mondo del calcio cominciò però a mostrare sensibilità al problema a seguito della vicenda di Mahmoud Sarsak. La storia del calciatore 25enne, in fin di vita dopo un lungo sciopero della fame in carcere, cominciato per l’ennesimo rifiuto di Israele di concedergli il processo in seguito all’arresto illegale di tre anni prima, la raccontò poi lo stesso Sarsak un anno dopo, una volta libero, in un’intervista esclusiva a ilfattoquotidiano.it.
Tra stadi bombardati, arresti arbitrari di calciatori, la repressione del movimento calcistico palestinese, unica via di fuga in un paese cui la terra è letteralmente sottratta sotto i piedi, non si è mai arrestata. Solo nel marzo scorso tre giovani Under 21 sono stati gambizzati a raffiche di mitra dai soldati israeliani nei pressi di un checkpoint vicino ad Al-Ram, in Cisgiordania. Ora con la prima storica qualificazione alla Coppa d’Asia, l’esordio venerdì 12 a Newcastle contro i detentori del Giappone, la speranza è che un altro calcio divenga possibile, anche e soprattutto in Palestina.