“Je suis Charlie” è il brocardo che in questi giorni echeggia come un mantra nelle bacheche di tutti i social networks, delle pagine web e di buona parte dei media. Un sentimento comune che fa onore a chi ogni giorno, anche nel democratico occidente, deve ancora combattere per difendere il Diritto fondamentale dell’Uomo alla libertà di espressione. Una reazione che lascia sperare, ma dietro la quale a mio avviso si nasconde anche molta ipocrisia: tutti pronti a difendere una libertà di stampa e di satira, quella francese, che in Italia è stata lasciata morire da un pezzo.
È morta da quando Luttazzi è stato cacciato dalla Tv con il cosiddetto editto Bulgaro. Da quando Grillo fu epurato dalla Rai per una battuta sui socialisti. Da quando D’Alema querelò Forattini. Da quando Brunetta querelò Vauro e Nitto Palma minacciò azioni giudiziarie contro Crozza.
Verrebbe da pensare che, se oggi tutti siamo “Charlie”, Charlie forse non morirà facilmente, mentre invece, in Italia, “Carletto” è morto da un pezzo, e nessuno se ne è lamentato più di tanto.
Una buona occasione per riflettere, dunque, sull’importanza della libertà di espressione e sull’eroismo (sic!) di tanti nostri giornalisti. La satira (e l’informazione in genere) vengono difatti uccise in mille modi, ed ogni giorno, in Italia: cause milionarie contro i giornalisti scomodi, leggi sempre più restrittive, dinieghi di coprire per contratto le spese legali cui vanno incontro i giornalisti di inchiesta, sanzioni economiche enormi contro le piccole testate e, ovviamente, minacce dirette ai giornalisti.
Tutti meccanismi idonei ad impedire di fatto la libertà di espressione o, comunque, a costringere i giornalisti a vivere in una situazione di disagio che forse non ha pari in Europa. Tutti modi legali e legittimi ma, a mio avviso, altrettanto pericolosi per la libertà di stampa, rispetto ai quali gli italiani sembrano quasi rassegnati, inermi, silenti.
Oggi “je suis Charlie”, ma vorrei tanto che ci fosse anche un “Carletto” in Italia.
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