Laggiù dove sono arrivati, i satirici di Charlie Hebdo si stanno già divertendo con i loro amici e sopratutto con le loro amiche non-vergini, in un bel festino di guitti oltrepassati, tra divanetti soffici come nuvole e dildo a forma di grandi matite. Se dovessero posare lo sguardo sulle parole che sto per scrivere penso che le troverebbero scialbe ma accettabili, forse addirittura sacrosante. Perché si saranno sicuramente accorti che, dopo essere stati abbattuti, il loro giornale è andato ad affiancarsi alla maschera di Guy Fawkes e, attraverso lo slogan Je suis Charlie, è diventato un meme virale di rivendicazione di libertà.
Dal momento della loro macabra esecuzione un sacco di gente è diventata Charlie, e tra questa moltitudine di persone sono diventati Charlie anche personaggi e soggetti piuttosto interessanti, tra cui splendide ragazze in posa seducente su Instagram. Il sogno di ognuno di quei vignettisti, a ben vedere, è diventato realtà nel momento in cui sono stati crivellati dalle pallottole. Non ho idea di cosa direbbero di quelle pallottole i satirici senza dio di Charlie Hebdo. “L’universo ti dà sempre quello di cui hai bisogno in quel preciso momento”, che è quello che ne direbbe il buddhismo, li scatenerebbe a disegnare un tripudio di bodhisattva drappeggiati che fanno il gesto della pace mentre giocano a incularella nella posizione del loto.
Dal mio umile punto di vista, la rivelazione che ci sono così tanti simpatizzanti per la satira in Italia mi ha veramente galvanizzata. In Italia l’espressione satirica viene fondamentalmente ignorata, in un contesto mediatico ipercompetitivo e ingrigito, dove tra indifferenza e censura finisce per non esserci molta differenza. La satira politica si è diluita in satira di costume e ormai di politica parlano soltanto Crozza, Littizzetto e pochi altri. I giornali di satira sono tutti chiusi e i pochi allegroni (per non parlare delle esigue allegrone) che continuano a fare satira lavorano quasi pro bono o tramite fortunate collaborazioni da autori precluse ai più. Del resto, si dice tra giullari, alla gente non gliene frega un cazzo.
Invece no! Con #JeSuisCharlie si è capito che la satira piace a un sacco di persone, che la platea è vasta, forse sconfinata. Che magari le persone non sono sempre d’accordo su tutto ma che apprezzano molto la provocazione e la punzecchiatura più o meno puntuta, la trasgressione, la sublime licenza di poter dire ciò che molti pensano ma tutti tacciono. Venerano la pulsione irrefrenabile ad andare a rimestare là dove ai potenti dà fastidio, per ricordare loro che alla fine muoriamo tutti. Sono in tantissimi a giubilare, nel senso di giubileo del divertimento, davanti a una rivista dove finora è stato possibile dire la verità mettendo da parte sussiego e compiacenza. Per dovere di cronaca va detto che l’unico umorismo che storicamente si applica anche ai temi religiosi è quello della cultura ebraica, che in tema di fucilazioni ha certamente un buon repertorio (nei testi chassidici è tutta una polemica tra gli ebrei e il loro Dio). Per dare un’idea riporto una barzelletta classica dell’ebraismo tratta da Homo Ridens, la dimensione comica dell’esperienza umana di Peter L. Berger:
Sotto un regime tirannico di un qualche genere tre ebrei stanno per essere fucilati. L’ufficiale incaricato dell’esecuzione offre loro l’ultima sigaretta. Il primo accetta, e così pure il secondo. Il terzo rifiuta. Al che il secondo si volta verso di lui e gli fa: “Moishe, non creare problemi!”.
La consapevolezza del gradimento planetario nei confronti di Charlie Hebdo e quindi della satira ben fatta mi ha dato una grande forza, ora posso volare e passo addirittura attraverso i muri. Quando in Italia verrà pubblicato qualcosa di anche vagamente simile a Charlie Hebdo, praticamente sto già camminando sulle acque.
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