Muore un grande regista e lascia uno spazio diserbato di dolore e rimpianto, uno strappo senza rimedio, per chi gli è stato accanto negli ultimi giorni, nelle ultime ore, amici stretti e devoti come Tornatore, Giordana, Andò, Scola. Soprattutto la figlia Carolina, bella e forte come la madre Giancarla mancata da poco, due parti essenziali della vita di questo artista. Ma il caso di Rosi, nel giorno della sua morte, è diverso. Ognuno dei suoi film ha sfidato un Paese umiliato dal conformismo, dall’opportunismo, dalla mafia, dal crimine organizzato, dalla corruzione. Ognuno dei suoi film è una ricerca di verità e una denuncia di reato. Ognuno dei suoi film è fatto per dare coraggio e orgoglio perché sempre, nelle sue storie vere, qualcuno resiste e anche se muore, l’autore ci fa sapere che ha lottato ed è esistito.
Un uomo che ci lascia, come traccia della sua vita Salvatore Giuliano, Le mani sulla città, Il caso Mattei, Uomini contro, Cadaveri eccellenti, La tregua, un percorso che continuerà a sostenere chi si batte per il ritorno alla legalità di questo Paese persino in momenti in cui i valori di civiltà, di libertà e di accertamento implacabile della verità sono stati buttati via. Il fatto è questo: la morte di Francesco Rosi strappa dalla vita e dalla memoria dei suoi amici di una vita la radice di un lungo e splendido sodalizio. Ma non spegne le luci di atterraggio lasciate lungo il percorso dal suo lavoro.
Sono in molti a riconoscere, prima di tutto alcuni maestri di Hollywood, che Rosi ha cambiato il modo di fare il cinema, ha abbattuto i confini fra documentario e fiction e fra immaginazione, per quanto realistica, e fatti realmente accaduti. Di questi fatti ciò che attirava l’attenzione di Rosi, ma anche una sorta di istinto indomabile per l’accertamento, erano le evidenze persino ovvie, erano gli eventi ingombranti negati o ignorati o tranquillamente trascurati, come se fosse possibile accantonare la realtà scomoda. Ecco, Rosi ha fatto della realtà scomoda e impraticabile il suo tipico territorio. E anche se nell’elenco del suo lavoro trovate bellissimi film di narrazione e invenzione o trasformazione dal racconto alla musica (Il momento della verità, C’era una volta…, Carmen), resta il senso fondamentale del suo passaggio rivoluzionario nel cinema.
So che una persona irritata da ogni tipo di iperbole, come Rosi, avrebbe giudicato inadatta la parola “rivoluzione” come chiave di interpretazione del suo lavoro di cinema (che lui, come ricorda il bel libro scritto insieme a un altro importante personaggio del cinema mondiale, Giuseppe Tornatore, chiama “cinematografo”). Però, come definire diversamente quel suo arrischiato accostarsi ai fatti fino al punto da svelarli persino se autorevolmente negati, persino se smentiti da protagonisti potenti non del cinema ma della politica, in tempo reale? Prendete Lucky Luciano in cui il rapporto fra mafia e guerra, e una strana alleanza fra liberatori e dominio della Sicilia (al rischio di una sottomissione perenne) viene narrata come se fosse la trama fantasiosa di un buon thriller. Quel film affronta e racconta una verità tremenda che i libri di storia, e persino buoni e rispettati testi universitari, ignorano o tengono in ombra.
Ma quel film (1973) è per forza una parte della straordinaria e inconcepibile audacia con cui è stato pensato, scritto e girato, nel 1962, Salvatore Giuliano. Contiene il Dna della mafia come originale associazione di crimine organizzato allo stesso tempo locale e mondiale, dramma di famiglia e secessione di un Paese, passando attraverso la prima prova politica della strage (Portella della Ginestra, che è allo stesso tempo la più bella sequenza d’azione mai girata nel cinema italiano, e un pezzo di storia patria mancante). A Francesco Rosi interessa sapere e mostrare come funziona la macchina del dominio (grande, in questo senso, più grande di tanti film di guerra, Uomini contro e il rapporto fra il cinismo delle classi dominanti e l’eroismo spontaneo e ribelle di chi dovrebbe soltanto ubbidire) e fin dove arriva la macchina degli interessi di potere che devono prevalere su un mondo equo di diritti rispettati (Cadaveri eccellenti).
Ma il momento straordinario del lavoro di Rosi, in cui il cinema è allo stesso tempo cronaca, storia, profezia, è Le mani sulla città (1963) in cui la politica è già corruzione, e la frase gridata dai consiglieri comunale di Napoli, mentre stanno votando un altro scempio edilizio (“Mani pulite, noi abbiamo le mani pulite”) diventa il nome di una grande indagine giudiziaria contro quella stessa corruzione moltiplicata in dimensioni immense, nel 1992. Nessuno che rifletta e ripensi alla grande eredità che Francesco Rosi lascia all’Italia e al cinema del mondo nel giorno della sua morte, potrebbe dimenticare Il caso Mattei. Io ho una ragione in più. In quell’anno (1972), Francesco Rosi mi ha chiesto di partecipare al film nel ruolo dell’assistente e traduttore di Enrico Mattei (Gian Maria Volonté) e in particolare alla sequenza in cui il petroliere americano respinge ogni possibilità di collaborazione. Era come partecipare, allo stesso tempo, alla realtà e alla finzione. Non solo perché Volonté era una specie di medium che diventava la persona interpretata. Ma perché quel film sulla morte inspiegata e misteriosa di Mattei ha portato alla morte inspiegata e misteriosa del giornalista Mauro De Mauro, incaricato da Rosi, in una telefonata che si vede nel film, di cercare piste e spiegazioni per la storia che intanto si stava filmando.
Come vedete, non abbiamo parlato di una carriera, per quanto straordinaria, ma di una parte importante della storia italiana, dei suoi misteri e delle sue rivelazioni. E capite perché Francesco Rosi, a Venezia, dopo avere ricevuto il Leone d’Oro alla carriera, ha concluso così il suo breve discorso di accettazione: “Voglio essere ricordato solo con queste parole: Francesco Rosi, cittadino”.
Il Fatto Quotidiano, 11 gennaio 2015
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