Sono qui, gli jihadisti. Qui a pochi metri. Ma quello che ho visto più da vicino, a Kobane, è stato un cadavere: dal mirino di un cecchino.
Torno qui ogni giorno a guardare la battaglia dal confine, dalla Turchia. Ma più che su una collina, mi sento in una metafora. Come questa foto di Bulent Kilic. L’esplosione, il bombardamento, e quel jihadista che corre, piccolo piccolo. E’ stata scattata con un teleobiettivo gigante. Perché con i sequestri, non abbiamo alternativa. Possiamo solo guardare a distanza.
E gli jihadisti, a distanza, non sono che una sagoma nera.
Siamo qui da tre anni, ormai. E l’Isis, per noi, in realtà non è stata una novità, ma un’evoluzione. Rientravamo ad Aleppo, ogni volta, e i vecchi bad guys erano adesso good guys, perché dall’estero, intanto, era arrivato qualcuno di ancora più estremista. E così, se all’inizio del 2013 eravamo tutti intimiditi dall’Ahrar al-Sham, la prima brigata jihadista, in primavera erano i ragazzi dell’Ahrar al-Sham a difenderci da quelli di Jabhat al-Nusra: che ci hanno presto difeso da quelli dello Stato Islamico. Il 14 novembre 2013, mentre l’Ahrar al-Sham ripristinava l’elettricità, l’acqua, ripiantava gli alberi, all’ospedale al-Zarzous l’Isis decapitava un paziente: stordito dall’anestesia, mormorava versetti sciiti. Solo a testa già andata si sono accorti che era uno di loro.
In questi anni, abbiamo visto i combattenti radicalizzarsi passo a passo. Radicalizzarsi insieme alla guerra – e più esattamente: insieme ad Assad. Perché non erano che manifestazioni pacifiche, all’inizio. Ma dai manganelli, la reazione è presto degenerata ai proiettili, e dai proiettili ai mortai: dai mortai agli elicotteri, e dagli elicotteri ai carrarmati, e poi i missili, e gli aerei, e il gas – fino ai barili esplosivi. Che non costano niente, non sono che benzina e tritolo: e quindi piovono a decine al giorno. L’unica linea rossa, qui, in questi anni, è stata la scia del sangue dei siriani.
Li abbiamo visti radicalizzarsi insieme alla nostra indifferenza.
Insieme alla disperazione.
Ma chi è ora, davvero, quella sagoma nera? E’ uno come Giuliano Delnevo, ricordate?, il ventenne genovese convertito in Ibrahim, fragile, smarrito, con padre e madre in lite eterna, uno che avesse incontrato gli Hare Krishna, invece che l’Islam, oggi stava per strada con un tamburo, tutto vestito di arancione? O è forse un fondamentalista come B., il tedesco che ha promesso di acchiapparmi e sgozzarmi perché ho scritto che i siriani, ad Aleppo, non parlano più di aree liberate e occupate, dell’Aleppo dei ribelli e dell’Aleppo del regime, ma solo di Aleppo Est e Aleppo Ovest? O magari è uno come I., il tranquillo ingegnere egiziano che mi ha cucinato mille volte la cena preoccupato che vivessi solo di biscotti, e che non capiva perché, se mi avessero rubato l’Iphone, avrei trovato un po’ esagerato mozzare la mano al ladro? Chi è quella sagoma nera? Un opportunista come A., che si è schierato con tutti, nella sua vita, dal regime all’Isis, ogni volta fedele al potente di turno? O un ragazzo come M., uno che trabocca odio, che trabocca rancore, uno con cui è impossibile parlare, sembra di avere davanti un muro: uno che ha perso letteralmente tutto, nella guerra, gli hanno bombardato tutto, ucciso tutti? Uno che non ha più nessuno? Aveva la felpa dei Metallica, quando l’ho conosciuto, era un punk. Magari è come K., il ceceno che combatteva all’aeroporto, quello che era venuto in Siria perché la Russia, che sostiene Assad, gli ha sterminato la famiglia. O forse, all’opposto, è come l’altro K., il mio driver, l’uomo più generoso in cui mi sia mai imbattuta: uno che aiuta tutti, e non ha niente, l’ho visto togliersi la sciarpa, nel freddo, il giubbotto, una volta persino le scarpe, per tenere al caldo un ragazzino – e a stento ha pane e riso per i suoi tre figli. Sarà uno a metà tra l’idealista e l’avventuriero, come M., americano, gran figo, che di Islam ne capisce quanto un palo della luce, o sarà invece come L., il giudice, sarà uno che applica la legge e nient’altro, uno che esegue gli ordini, senza troppe domande, e adesso applica la sharia perché gli hanno detto di applicare la sharia, un ragioniere della vita? Sarà come M., l’elegante professore di letteratura che mi spiega il Corano in giacca di velluto, o sarà come il tossico strafatto che è stato trovato morto a Kobane con un pacco di cocaina, mentre gli altri non devono neppure fumare altrimenti Dio li fulmina? Chi è quella sagoma?
Uno che non mi parla perché sono una ragazza, o uno che mi stima perché dice che mi batto nelle mie battaglie, a casa mia, che non guardo solo ai disastri nei paesi degli altri?
Nessuno di noi, oggi, liquiderebbe il nazismo come il semplice prodotto della follia di Hitler. Nessuno di noi ignorerebbe quella relazione tra modernità e Olocausto su cui Zygmunt Bauman ha scritto pagine magistrali. Bollare il nemico come un macellaio, come uno squilibrato, non ha senso. Ho incontrato molti jihadisti, in questi mesi, e onestamente, non ho un’opinione precisa. Non ancora. Non ho capito chi sono davvero, cosa vogliono – sono così diversi tra loro. Ma non bombardano con scorpioni vivi, né chiamano casa singhiozzando perché hanno scoperto che al fronte manca il Twix, come ho letto in alcuni degli articoli più isterici. E non mi basta dire che sono terroristi, perché terrorismo è un termine descrittivo, si riferisce alla tattica usata, al causare terrore per indurre a certe scelte – non è un termine esplicativo. Un po’ come il giornalismo, a distanza. Al più è emozione. Non è comprensione.
E’ solo una nuvolona di polvere.
I giornalisti, quelli veri, quelli bravi, sono nel mirino da sempre. Pensiamo ai nostri anni di piombo, a Walter Tobagi. A Peppino Impastato. O al terrorismo di stato che a Mosca ha ucciso Anna Politkovskaja. Ma come dice Roberto Saviano, un altro che di queste cose, purtroppo, è un esperto, l’erba, quando viene calpestata, diventa un sentiero. Continueremo a disegnare, a scrivere. A raccontare. Liberi. Continueremo a pensare: perché la nostra società risponda a tutto questo con intelligence, sì, ma soprattutto intelligenza.
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