Compri oggi, paghi quando vuoi. Tutti vorrebbero, il governo lo fa. Mentre le imprese continuano a chiudere le amministrazioni pubbliche seguitano a saldare ben oltre i limiti di legge. Ma a sorpresa tra i cattivi pagatori spunta perfino la Presidenza del Consiglio dei ministri. Proprio così, il governo italiano i propri fornitori li paga in media oltre 70 giorni dal recepimento della fattura. Il dato è lì da leggere, sul sito istituzionale di Palazzo Chigi. È riferito al 2013 ed aggiornato a sei mesi fa. Ne esiste uno più recente? No, il dipartimento Risorse umane e strumentali della Pdcm, appositamente contattato, fa sapere che tocca accontentarsi di quello.
Se così stanno le cose, significa che da due anni a questa parte il governo viola le disposizioni che, in ottemperanza alla direttiva europea, dal 1 gennaio 2013 obbligano le PA a saldare le fatture a trenta giorni. Nel 2013 e fino a oggi, infatti, la media dei pagamenti della Presidenza è stata di 71,72 giorni, un tempo più che doppio rispetto a quello prescritto dalla legge. E il paradosso è che a scriverla e poi violarla è sempre Palazzo Chigi.
La bizzarria aumenta poi se si allarga lo sguardo: l’obbligo, ovviamente, vale per tutte le amministrazioni pubbliche, salvo rare eccezioni. Poche, pochissime, l’hanno però rispettato, compresi i ministeri. Infondo perché farlo, se chi ha diramato l’ordine per primo non lo rispetta? La vicenda si dipana dunque come l’ennesimo paradosso all’italiana, non fosse altro per il fatto che l’Italia, nel frattempo, è stata pure messa in mora dall’Europa proprio per i pagamenti lunghi. Andiamo allora dritto alle origini di questa surreale patologia nazionale che ha effetti pesantissimi per l’economia e le imprese.
Vent’anni di promesse disattese. Le sanzioni? Mai arrivate
La storia dei tentavi di accorciare le transazioni è costellata di fallimenti. Aveva provato più volte Berlusconi, nel 2002 e nel 2009, ma le sue norme per i pagamenti a 30 giorni demandavano le misure da adottare alle singole amministrazioni e sono rimaste inefficaci. A raccogliere il testimone fu poi Mario Monti che impresse al limite la cogenza di un obbligo. Un provvedimento d’urgenza. In quei mesi, del resto, il tema aveva tragicamente preso spazio nel dibattito sull’emergenza economica del Paese. Sui giornali e in tv impazzavano le cronache disperanti degli imprenditori suicidi, dei pignoramenti per fallimento e delle cartelle pazze di Equitalia. Montava allora la polemica sullo Stato che strozza le imprese pagando le fatture anche dopo un anno e più. Di qui, la decisione del governo di usare la mano pesante con tutte le amministrazioni, ad esclusione della sola sanità che ottenne una deroga al pagamento entro sessanta giorni.
Con quattro articoli del decreto n. 192 del 9 novembre 2012, in ossequio all’Europa, il governo tecnico ha così emanato la “nuova disciplina sui ritardi nelle transazioni commerciali”. All’articolo 1 fissava il limite di pagamento a 30 giorni che si applicherà a partire dal 1 gennaio 2013. Per incentivare le amministrazioni ad adeguarsi, il disposto legislativo innalza il tasso degli interessi legali di mora dal 7 all’8%. Ma in mancanza di una misura che oggettivi e colpisca specifiche responsabilità il deterrente è acqua calda. A dimostrarlo, oltre ai tempi rimasti lunghi, c’è una circolare del Mef (la n. 27/2014) dello scorso novembre che riporta per ognuno dei provvedimenti di legge emanati in materia dal ’72 a oggi l’indicazione di chi irroga la sanzione in caso di “mancato ottemperamento dei termini”. “Non indicato” è la dicitura più ricorrente. Certo, “resta in ogni caso la responsabilità per danno erariale del funzionario responsabile del ritardo nei pagamenti” ma dimostrare poi l’effettiva responsabilità è impresa ardua, anche per una certa propensione degli “uffici” a coprire se stessi.
Mistero al ministero, nessuno fornisce dati
Il risultato di questo pastrocchio è che a un anno dalla introduzione dell’obbligo la maggior parte delle amministrazioni si è concessa una deroga in proprio. Non tutte – va anche detto – rendono conoscibile il cosiddetto “indice di tempestività” dei pagamenti. L’obbligo di pubblicarlo, con tanto di aggiornamento trimestrale, vale solo da quest’anno, come stabilisce il d.gls n.33 del 2013 (obblighi di trasparenza delle Pa). E tuttavia, facendo un po’ di ricerche e di telefonate, si scopre che la maggior parte delle amministrazioni non dichiara un bel nulla, evitando così di finire nella classifica dei cattivi pagatori. Non sono pervenuti, ed è significativo, tutti i ministeri. Movimentano quasi un miliardo al giorno, per l’esattezza 283 miliardi, la metà dei quali in spese di funzionamento (dato 2012, fonte: servizio bilancio dello Senato). Ma in quanto pagano è un mistero.
Facciamo qualche esempio. Il ministero della Funzione Pubblica non ha diffuso alcun dato. Zero la Giustizia che pure ha una dotazione annuale da spendere di 7 miliardi di euro, nulla dalla Difesa che ne ha 19. È in costruzione la pagina dedicata dell’Istruzione che gestisce un bilancio di 44 miliardi. Il Ministero degli Esteri, che spende 2 miliardi di euro l’anno, informa che “sta procedendo alla raccolta dei dati effettuati nell’anno in corso, al fine di procedere comunque al più presto alla pubblicazione dei tempi medi di pagamento nei confronti dei fornitori.” Ma la pagina è ferma a giugno 2014 e siamo nel 2015. Sarà poi così difficile per un’amministrazione centrale dello Stato monitore i propri pagamenti? In teoria non dovrebbe esserlo, anche grazie alla possibilità della fatturazione elettronica. Ma anche questo è prodigio italiano: è stata introdotta nell’ordinamento 43 anni fa (col DPR n.633 del 1972), quando nelle sale usciva “ultimo tango a Parigi” e imperversavano lotte studentesche e lotte armate. Ma è diventata obbligatoria come unica possibilità di pagamento delle Pa soltanto dal 2013. E neppure è bastato perché i tempi di pagamento dipendono da diversi fattori: dalle disponibilità di cassa degli enti, dalla loro capacità di programmare la spesa, dall’oculatezza nell’impegnare (quando possibile) risorse di cassa senza far conto di trasferimenti successivi. E tuttavia c’è speranza: si-può-fare. Lo dimostra l’Agenzia del Demanio che nel 2013 vantava una media aritmetica di 29,8 giorni e una media ponderata di 33,7.
Regioni e Asl, i trucchi per nascondere i dati
Scendiamo di livello, le Regioni. In questo campo autonomia e del federalismo fiscale si riassumo in quattro parole: ognuna fa da sé. Non pervenuta è la più squassata d’Italia, la Regione Lazio: l’indice di tempestività è annunciato dal 24 maggio 2013, un anno e mezzo dopo non c’è proprio nulla. La Lombardia si conferma virtuosa, con una media aritmetica dei tempi tra arrivo fattura ed emissione del mandato di pagamento di 31 giorni. La Sardegna? È molto lontana da Milano: 67,84 giorni. L’Umbria, mediamente, paga a 34 giorni. Per nascondere violazioni di legge ed evitare imbarazzi i vertici delle burocrazie contabili di alcune regioni ricorrono a ingegnosi stratagemmi.
Molto praticato quello di fornire non l’indice annuale ma percentuali, contravvenendo così all’indicazione dell’Autorità Anticorruzione (Anac) che si è presa la briga di codificare in modo preciso il sistema di calcolo ponderato dei tempi. Si scopre allora che in Piemonte il 10% delle fatture sono state liquidate entro la scadenza, il 76% entro i 30 giorni, il 14 oltre i 30 giorni dalla scadenza. Ma a quanti giorni non è dato sapere. La Liguria ha trovato un altro trucco: spezzetta i periodi monitorati, con buchi di tre/quattro mesi, in modo da non fornire mai il dato annuale. La Regione Abruzzo arriva oltre: sul suo sito riporta l’indice di tempestività dei pagamenti per ogni direzione, dalla Presidenza alle politiche per la Salute al Turismo. Il dato complessivo non c’è. Le Aziende sanitarie sono l’anello debole dei pagamenti. Pur avendo 60 giorni a disposizione molte vanno ben oltre. Altre sono virtuose e confermano che “si-può-fare”: l’Asl di Lodi, ad esempio, in un anno è addirittura scesa da 60 a 51 giorni.
Alla fine della ricognizione sovviene una domanda.Perché mai l’obbligo dei 30 giorni deve valere per i piccoli comuni e non per le grandi amministrazioni, quelle che ogni anno spendono milioni in forniture e rallentando i pagamenti danneggiano migliaia di imprese? Succede infatti che il piccolo comune di Breda di Piave, 7mila anime in provincia di Treviso, paga i suoi fornitori a 27,6 giorni e pubblica regolarmente il dato sulla tempestività dei pagamenti. E dunque rispetta la legge. Il ministero degli Affari Esteri ha 7mila dipendenti (tanti quanti gli abitanti di Breda) e non fa né l’una né l’altra cosa. La presidenza del Consiglio? Per le sue attività spende circa 500 milioni l’anno ma paga a 71 giorni, doppiando i termini di legge. Perché le cose vanno al rovescio? La riposta un giorno arriverà, forse. Probabilmente in ritardo.