Dovremmo chiederci come mai i morti di Parigi suscitano in noi tanta indignazione, mentre la morte di oltre 200 mila siriani, di cui 74 mila uccisi nel solo 2014, non è riuscita a riempire una sola piazza europea, né a far marciare insieme i capi di Stato del mondo. Eppure la maggior parte di loro è morta in nome della libertà, la stessa che oggi brandiamo fieramente, massacrati dal regime dittatoriale di Assad, sostenuto da alcuni dei leader che si sono ritrovati ieri a Parigi, e dagli estremisti, finanziati da dinastie monarchiche interessate al potere.
Perché non ci siamo identificati con quei morti?
Una prima risposta è che la geopolitica, soprattutto quando è giocata sulla pelle di popolazioni considerate del Terzo mondo, elimina qualsiasi tipo di morale e virtù. I morti, quando non sono occidentali, e quando servono per garantire il nostro benessere, possono essere sempre giustificati. La nostra indignazione non scaturisce a causa del numero di vittime, ma bensì in base al “chi sono quelle vittime”.
L’altra motivazione è la percezione del mondo con cui siamo cresciuti, quella che ci fa associare l’africano con la fame, l’arabo con il terrorista e che ha relegato il resto del mondo, l’altrove, a un eterno caos dove la morte di esseri umani è qualcosa di abitudinario. E’ per questo che per le decine di migliaia di siriani che moriranno nei mesi a seguire, come per quelli che sono già morti, non ci riuniremo nelle piazze; i nostri capi di Stato non marceranno a braccetto; non faremo dirette televisive di ore perché quelle vittime faranno inevitabilmente parte di un altro mondo, lontano noi. I loro nomi, i loro volti, non ci verranno mai mostrati in televisione: saranno solo numeri vuoti, privi di qualsiasi umanità, ai quali ci siamo fin troppo abituati.
Sarà proprio questa nostra incapacità a considerare tutti i morti uguali, perché ci preoccupiamo solo della nostra “civiltà”, a condannarci e a fornire il terreno fertile su cui il fanatismo, oggi islamico e domani chissà, attecchirà. In sostanza manca il riconoscimento dell’altro, del suo diritto al dolore e all’umanità.
C’è chi oggi si avventura a dire che «tutto questo non sarebbe successo se non ci fossero state le “fallimentari” primavere arabe che hanno deposto o messo in bilico alcuni leader cari all’Europa che erano dittatori ma, tutto sommato, erano l’argine al fondamentalismo». Chi ha espresso in queste ore la precedente affermazione non ha capito che il fondamentalismo islamico si nutre di quella retorica e più sosterremo dittatori per arricchirci, più il radicalismo crescerà. L’integralismo continuerà a fare proseliti fra la miseria che i dittatori arabi, preoccupati di arricchire le loro famiglie, hanno creato nelle loro nazioni.
Dobbiamo ascoltare il grido, quello che proviene dal mondo arabo che ci chiede di essere aiutato a sconfiggere i totalitarismi, come quello siriano, e il fondamentalismo.
Se noi europei siamo davvero i detentori della civiltà e della morale, come ieri si è gridato a Parigi, allora dobbiamo fondare una politica estera che non sia più dominata esclusivamente dall’interesse economico ma dal bene comune. Dobbiamo stringere la mano a quelle società civili arabe, come quella siriana, perseguitate e messe all’angolo dalle decennali convergenze economiche occidentali che hanno mantenuto in piedi i regimi mafiosi arabi.
Solo quando riusciremo a indignarci per gli altri morti, come quelli in Siria, allora le grida e le marce come quella di Parigi avranno un senso; altrimenti tutto durerà il tempo di una manifestazione.
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