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Elezioni Grecia 2015, Atene, crocevia d’Europa: in arrivo una nuova politica economica o un’altra crisi?

Le prossime elezioni politiche in Grecia sono un passaggio delicato per tutta l’Unione. Si aprono scenari diversi, che potrebbero condurre a una nuova politica economica per l’euro, con l’interpretazione meno restrittiva dei vincoli di bilancio. Oppure al rinnovarsi dei rischi di crisi finanziaria.

di Massimo Bordignon* (lavoce.info)

Le elezioni in Grecia

Ma che succederà con la nuova crisi greca? Nel dicembre scorso mercati e cancellerie europee sono entrate in fibrillazione, perché un possibile fallimento nell’elezione del presidente della Repubblica greca avrebbe comportato automaticamente nuove elezioni politiche e dunque la possibile vittoria di Syriza e della sua agenda politica volta alla ristrutturazione del debito. Ora che il peggio si è avverato, il presidente non è stato eletto, e le elezioni politiche in Grecia sono già fissate per il 25 di gennaio, tutto appare stranamente calmo. La borsa di Atene, comprensibilmente, ha perso l’11 per cento, con qualche rimbalzo negativo sulle altre piazze europee; ma le quotazione dei titoli pubblici degli altri paesi, anche di quelli più nei guai, come il nostro, non si sono quasi mossi e lo spread tra Bund e Btp non è aumentato.
Tutto bene allora: i sistemi di protezione introdotti a livello europeo dopo la prima crisi greca — i prodomi dell’unione bancaria, il fondo di stabilità europeo (Esm) e le Outright Market Transaction (Omt) — funzionano e non c’è nessun rischio di contagio in vista? Non necessariamente. Anzi, è molto probabile che così come è avvenuto nel 2010, la crisi greca rappresenti un altro salto di qualità nella vita dell’unione monetaria, quasi un rito di passaggio verso approdi che, però, ancora non sono chiari.

I dilemmi greci

Ma anche ammesso che Alexis Tsipras alla fine le elezioni le vinca davvero e con margine sufficiente da poter imporre la propria agenda (tutto da vedersi, naturalmente), la sua politica è sensata? Dipende. Dalla sua ha il fatto che, a prezzo di una recessione che dal 2007 ha distrutto il 22 per cento del suo Pil (il 14 per cento dal 2010) e portato il tasso di disoccupazione al 27 per cento, la Grecia ha ora raggiunto un avanzo pubblico primario, riequilibrato il bilancio esterno e ci sono perfino modeste prospettive di crescita in futuro, grazie anche alle riforme realizzate sotto tutela della Troika. In altre parole, la Grecia non ha più bisogno di prestiti esterni per pagare stipendi pubblici o pensioni. Di più, il debito pubblico greco, pari a 330 miliardi, oltre il 175 per cento del Pil, è per circa l’80 per cento nelle mani di istituzioni finanziarie straniere: il 60 per cento sotto forma di prestiti da Efsm o Esm, il 12 per cento dell’Fmi, il restante della Bce. Se dunque la Grecia ripudiasse unilateralmente il debito o si impegnasse a pagarlo solo ai residenti, gli effetti sull’economia interna sarebbero limitati e i risparmi sugli interessi, pari a circa il 5 per cento del Pil, coprirebbe in qualche misura le politiche sociali che la stessa Syriza annuncia.
Qui però finiscono le buone notizie. Con il ripudio, la Grecia perderebbe l’accesso ai mercati internazionali dei capitali per un tempo sicuramente considerevole, e si innesterebbero complessi processi legali (il debito greco, dopo la ristrutturazione del 2012 è ora sottoposto al diritto internazionale) che porterebbero probabilmente all’esproprio delle attività greche detenute all’estero. Di più, sicuramente gli altri paesi europei troverebbero il modo di punirla sul piano economico, anche se non è ovvio da un punto di vista legale come (blocco dei fondi strutturali europei? Perdita di diritti di voto nel consiglio? Perdita di accesso al mercato comune?). Certo, non si capisce come le banche greche si finanzierebbero in futuro, non potendo più accedere ai finanziamenti della Bce. Anche se non è questo l’obiettivo dichiarato da Syriza, è dunque probabile che il ripudio unilaterale del debito pubblico porterebbe inevitabilmente a una fuoriuscita della Grecia dall’euro, con il vantaggio per il paese di un recupero di autonomia monetaria e della possibilità di svalutare il cambio, ma anche con tutti i problemi che comporterebbe stare fuori dall’Unione europea e non aver più accesso ai mercati internazionali dei capitali.

Il bargaining

Per questo, è molto probabile che l’atteggiamento di Syriza sia soprattutto un “bargaining chip”, una minaccia posta sul tavolo per contrattare da una posizione di forza relativa una qualche ristrutturazione del debito. Se la Grecia denunciasse il debito o congelasse il pagamento degli interessi ci sarebbero infatti costi su tutti i paesi creditori, direttamente per i prestiti bilaterali o tramite l’Esm, e indirettamente attraverso le perdite sopportate dalla Bce che verrebbero spalmate tra tutti i paesi partecipanti al suo capitale. L’Italia, per dire, ci rimetterebbe fino a 20 miliardi.
Ma oltre ai costi finanziari, ci sarebbero quelli politici; la dimostrazione che le politiche seguite finora dell’UE non funzionano, almeno non dappertutto, oltre a rappresentare la prova provata che l’euro non è davvero lì per star lì per sempre o almeno non per tutti, con le inevitabili conseguenze negative per la credibilità della costruzione monetaria europea.

I dilemmi europei

E qui si innestano i dilemmi europei. Di per sé, la richiesta di una ristrutturazione non è irragionevole, oltre che finanziariamente sostenibile, data la dimensione sostanzialmente limitata del debito greco rispetto al Pil complessivo dei paesi dell’euro. In realtà, nessuno capisce bene come con i tassi di crescita nominale prevedibili per il futuro prossimo venturo, la Grecia riuscirà mai a restituire un debito pari al 177 per cento del suo Pil, per quanto (artificialmente) bassi possono essere i tassi di interesse richiesti (ora attorno all’1,5 per cento). E se a una ristrutturazione si deve comunque arrivare, meglio farla prima che dopo, perché permetterebbe al paese di ripartire ed eliminerebbe una fonte di incertezza per tutti gli altri. Ma cedere alle richieste greche, anche solo in parte, rimetterebbe in discussione l’intera politica economica europea seguita dopo la crisi, con possibili effetti di contagio su altri paesi. Per esempio, rafforzerebbe Podemos in Spagna per le elezioni politiche del prossimo anno e in generale, tutti i partiti critici nei confronti della politica economica imposta sui paesi del sud d’Europa, il nostro incluso.
E qui si aprono due possibilità. Ottimisticamente, l’esperienza greca potrebbe convincere la Germania e i suoi alleati del Nord che le politiche di austerità a tutti i costi non pagano: alla fine, le opinioni pubbliche dei paesi trattati si ribellano, e l’intera unione monetaria viene messa a rischio, con enormi costi per tutti. Il contrario della dottrina del “tenere i paesi continuamente sull’orlo del baratro o non fanno le riforme” teorizzata dai tedeschi per sfuggire ai rischi dell’azzardo morale. Questo potrebbe condurre a un’ulteriore revisione della politica economica europea, rafforzando i primi timidi cenni (tipo il piano Juncker o il dibattitto sulla “flessibilità”) a favore di una interpretazione meno restrittiva dei vincoli di bilancio e verso una politica fiscale più favorevole alla crescita.
Ma al contrario, la vicenda greca potrebbe convincere definitivamente l’opinione pubblica tedesca che aiutare i Piigs è solo una perdita di tempo e denaro, perché sono inaffidabili e il loro vero e unico obiettivo è fregarsi i soldi degli altri. Se passa questa interpretazione, il caso greco moltiplicherà le critiche e i possibili ricorsi costituzionali contro l’Omt, e renderà più difficile portare avanti le politiche di quantitative easing promesse dalla Bce, che al momento significano di fatto, come l’Omt, acquistare ingenti quantità dei debiti pubblici dei paesi in crisi, a cominciare dal nostro. Per esempio, la politica del Qe dovrebbe essere ufficialmente varata alla riunione del consiglio direttivo della Bce del 22 gennaio, cioè solo tre giorni prima delle elezioni greche, e a questo punto non è ovvio che ciò avvenga davvero. Ma qualunque percezione di un rallentamento dei programmi potrebbe innestare una nuova crisi finanziaria dagli esiti imprevedibili.

*Si è laureato in Filosofia a Firenze e ha svolto studi di economia nel Regno Unito (MA, Essex; PhD, Warwick). Si occupa prevalentemente di temi di economia pubblica. Ha insegnato nelle Università di Birmingham, Bergamo, Brescia, Venezia e all’Universita Cattolica di Milano. Attualmente è professore ordinario di Scienza delle Finanze presso quest’ultima Università, dove dirige anche l’Istituto di Economia e Finanza e la Doctoral School in Public Economics. Ha svolto e svolge tuttora attività di consulenza per enti pubblici nazionali e internazionali ed è stato membro di numerose commissioni governative, compresa la Commissione sulla Finanza Pubblica presso il Ministero del Tesoro nel 2007-8. Redattore de lavoce.info.