Nelle società feudali agghindate da democrazie le elezioni sono il meccanismo attraverso cui si perpetuano le disfunzioni: talora col voto ai vecchi baroni in abiti nuovi, talaltra ai giovani vassalli dalle smisurate ambizioni. In Italia ne è evidenza la Prima Repubblica, perpetuatasi nella ventennale alternanza Prodi – Berlusconi, fino al tripudio del Nazareno.
Le elezioni greche sono una giostra di ferrivecchi del Pasok – riciclatisi tra maoisti e trotskisti in Syriza – del revanscismo dinastico del clan Papandreu (primi ministri da tre generazioni), di fascistoidi xenofobi di Alba Dorata e finanche di comunisti orgogliosamente filo-Urss (una sorta di necrofilia politica). Questo magma sventola il guanto di sfida all’Europa. Vaste programme. Innanzitutto le elezioni bisogna vincerle. Poi tocca governare. E il 27% accreditato a Syriza è asfittico. Il Pasok stravinse le elezioni nel 2009 per poi sparire di fatto nel 2012.
Tsipras, scalando gli specchi per le allodole, professa fedeltà all’euro, ma gorgheggiando a ritmo di sirtaki: “Chi ha avuto ha avuto ha avuto, chi ha dato ha dato ha dato … ”. Se uscisse dal suffragio un gabinetto Syriza, pragmaticamente punterebbe a un bottino di alcuni miliardi con cui lubrificare alla svelta la macchina del consenso, in particolare pensioni e pubblico impiego (i pilastri clientelari), ingigantendo mediaticamente il successo. Col debito greco ormai per oltre l’80% in mano pubblica (stati, Bce, Ue e Fmi) le capitali europee sono rassegnate a concedere una qualche dilazione a chiunque prevalga nelle urne. In ogni caso la traiettoria dei pagamenti va rimessa in linea con la realtà perché le riforme per riattivare l’economia latitano, l’evasione fiscale è intatta, il resto è marasma.
In definitiva, come nella canzone, i quattro assi che Tsipras sbandiera ai comizi sono di un colore solo (con prevalenza di picche). Infatti le conseguenze della Grexit per l’Europa sarebbero gestibili e anzi in Germania prende quota l’opinione che la bancarotta ad Atene infliggerebbe una scossa salutare anche a Madrid, Roma e Parigi, snodi veramente cruciali per la tenuta dell’euro.
Inevitabilmente, per giustificare sul piano morale e politico il ripudio del debito assisteremo ad appassionate invocazioni della Democrazia e della sovranità popolare. Argomenti che vanno condivisi in toto ed adottati nella pratica senza tentennamenti. Dal momento che eventuali concessioni a Syriza sarebbero un’esprorio contro i cittadini di Eurolandia, un accordo andrebbe democraticamente sottoposto a referendum negli altri 27 paesi, insieme all’esplicita alternativa di un’espulsione della Grecia dall’eurozona e dalla Ue. Democraticamente, s’intende.
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il Fatto Quotidiano, 7 Gennaio 2015